martedì 5 dicembre 2017

A forza di essere vento

Come fanno a vivere in questo modo gli zingari, in questo campo che puzza di urina. Guarda quel piccino, avrà cinque, sei anni. Quant’è sporco. Non si lavano mai? Sicuramente tra poco verrà mandato a fare la carità. I genitori impostano i figli da piccoli, a realizzarsi in una vita da parassita. Il passo accelera, la testa si gira dall’altra parte. Finalmente arrivo alla fermata dell’autobus, spero che arrivi presto che qui non mi sento molto sicuro.

Perché mi guarda con questo sguardo cattivo? Sono un bimbo, si dovrebbe sorridere ai bambini, così dice la mamma. Ma i gagé sono diversi da noi, mi hanno detto. La mamma mi dice sempre di non fidarmi di loro. Il padre del nonno è stato ucciso da loro tanti anni fa, durante la guerra. In quella guerra, il porajmos lo chiama mia madre, hanno ucciso milioni di noi. Milioni sono tanti, tantissimi, mi hanno spiegato. Ma i gagé non se ne ricordano. Come ci si può dimenticare di aver ucciso milioni di uomini e donne? Sono un bimbo, non capisco queste cose ancora. Ma quando sarò grande e capirò meglio glielo spiegherò bene, non si possono dimenticare queste cose. Gli spiegherò anche che non va bene comportarsi così, bisogna sorridere a tutti i bambini.

Mi giro nuovamente a guardare verso il campo, per assicurarmi che non vangano a darmi fastidio. Ecco, il bimbo si incontra con altri due bimbi. Ridono e scherzano, come tutti i bambini. La mamma del bimbo esce dalla roulotte, lo accarezza e lo saluta con un sorriso ed un abbraccio. L’affetto delle mamme è universale, almeno questo. Vanno a chiedere l’elemosina in città, probabilmente. Ma non dovrebbe esserci l’obbligo di andare a scuola? La polizia, gli assistenti sociali non dovrebbero vigilare ed obbligare questa gente a far studiare i propri figli? Beata innocenza, adesso non capiscono cosa perdono, non capiscono a cosa sono condannati.

Anche oggi si va in città a caritare. Non mi piace molto, ma anche noi bimbi dobbiamo aiutare mamma e papà. Non mi piace, perché in città ci guardano male. Non capiscono che bisogna sorridere ai bambini. Alcune mamme ci sorridono, però non sono molte. Molti bambini, specialmente quelli più piccoli ci sorridono, spesso le loro mamme li tirano via. Non lo so, mi sembra che noi bambini siamo simili, forse diventiamo diversi quando cresciamo. Non capisco queste cose, sono solo un bambino. Non mi sembra giusto tirare via un bambino che sorride e vuole giocare con un altro bambino. Quando sarò grande glielo spiegherò che non va bene comportarsi così.

L’autobus ancora non arriva. Per fortuna arriva altra gente, neanche loro molto raccomandabili però, a ben guardare. Un gruppo di ragazzi, forse tifosi di una squadra di calcio, con delle birre in mano. Urlano male parole contro la mamma del bimbo, che stava lavando qualcosa in un catino. La signora capisce che non è aria e rientra nella roulotte senza guardarli. Speriamo che non vada a finire male. Uno inizia a tirare un sasso sul tetto della roulotte. Il gruppo fa quello che i gruppi di ragazzi di poca intelligenza ed educazione fanno, si sfidano a chi è il più coraggioso (o forse il più tonto). Il secondo prende un sasso più grande lo lancia. Il terzo rompe una delle finestre della roulotte. Ridono. Quattro ragazzi ancora non hanno lanciato nulla. Forse dovrei chiamare la polizia.

Mentre andiamo in città, facciamo a gara a chi è più veloce. Io non sono molto veloce, e preferisco cambiare gioco. Inizio a calciare un barattolo. Sfido gli altri a chi riesce a mandarlo più lontano, mentre corriamo. Iniziano ad esserci più macchine, cambiamo gioco. Adesso giochiamo agli indovinelli. Sono bravo a questo gioco. Finalmente arriviamo in piazza. Ognuno di noi si sceglie un semaforo per chiedere la carità. Mi avvicino al mio semaforo. Scatta il rosso. Faccio la faccia triste e mi avvicino alle macchine chiedendo la carità e recitando le benedizioni che mi ha insegnato la mamma. Secondo me è vero, il buon Dio aiuta la gente generosa. Alcuni mi danno delle monete, molti altri no. Non sono sicuro che tutti quelli che mi danno dei soldi siano generosi però: mi sembra che spesso me li diano solo per farmi andare via. Come se io gli dessi fastidio. Non mi piace dare fastidio. Come posso caritare senza dare fastidio? La mamma dice di non preoccuparmi, ma non mi piace, non mi piace quando mi danno i soldi per mandarmi via. Chissà dove li prendono i soldi i gagé. Sono solo un bimbo, ma quando sarò grande vorrei capire meglio tutte queste cose. Sicuramente avrò tanti soldi, e li darò a tutti i bimbi che me li chiederanno.

Gli ultimi quattro esitano. Uno lancia la bottiglia di birra vuota contro la roulotte. Un altro lo imita ed urla male parole contro gli zingari. Gli ultimi due confabulano. Si allontanano dietro un muro. Finalmente. Saranno pure dei ladri, e degli sporcaccioni, ma non è giusto tirargli delle pietre. Chissà qual’è la cosa giusta. Chissà se mandandoli a scuola da piccoli non si riesca a renderli più civili e ad adeguarsi alla nostra cultura. Non c’è più spazio per queste enclavi di arretratezza, inciviltà nel nostro paese: è anacronistico. Non è giusto non dare a questi bambini una istruzione ed un modo di guadagnarsi il pane onestamente. Però, anche loro dovrebbero capire che non possono andare avanti così. Dovrebbero fare di tutto per mandare i loro figli a scuola ed inserirli nella società civile.

Vedo che all’angolo della piazza arrivano i vigili. Rapidamente raccolgo le mie cose e faccio segno ai miei compagni. Abbiamo già raccolto qualche soldo. Magari torniamo più tardi. Passiamo davanti ad una scuola, mentre escono i bambini. Per qualche minuto veniamo investiti da una folla di bimbi come noi. Sorridono tutti. Sorridiamo anche noi. Ci lasciamo trasportare dalla folla e corriamo con loro. Per un attimo siamo uguali. Le mamme corrono verso di loro e li tirano lontano da noi. Ci riconoscono sempre. Credo che sia perché loro hanno sempre abiti nuovi e noi no. Che senso ha cambiare abito più volte al giorno? Che spreco. Che senso ha farsi la doccia tutti i giorni? La mamma dice che è una loro fissazione, e che tra l’altro, fa male alla pelle. Dovremmo spiegarglielo. Adesso sono piccolo, ma non appena avrò l’età giusto glielo farò capire senz’altro. Corriamo verso casa.

L’autobus ancora non arriva. Sento delle voci, mi giro. I ragazzi sono tornati, questa volta con il cappuccio della felpa tirato sulla testa. I due che mancavano all’appello hanno due bottiglie con uno straccio che ne esce dal collo. Accendono la prima bottiglia con un accendino e la lanciano contro la porta della roulotte. La seconda viene lanciata contro il fianco. Gli idioti scappano. Forse dentro la roulotte c’è la mamma del bimbo. Spero esca in fretta, non è il caso di andare sul telegiornale della sera per questa bravata. Non esce, forse non si è accorta del fuoco. Siamo in cinque alla fermata, guardiamo tutti la scena ma nessuno dice nulla. “C’era una signora dentro. Forse è meglio chiamare la polizia” suggerisco. Annuiscono tutti. Chiamo la polizia e descrivo i fatti. Mi dicono che stanno per arrivare.

C’è del fumo che viene dal campo. Mi sembra diverso dal solito, da quando cucina. Forse la mamma doveva bruciare delle cose che non le servivano. Non succede spesso. Di solito riesce sempre a riutilizzare tutte le cose. Ogni pezzo di legno viene usato prima come bastone, poi come puntello, infine come legna da ardere. Ogni pentola viene usata per cucinare, poi come contenitore, ed infine, riempita di terra, come vaso. Mentre mi avvicino vedo che è la nostra roulotte che sta bruciando. Corro verso il campo, fino quasi alla roulotte che brucia. Chiamo la mamma urlando. Ho paura.

Il bimbo torna, e chiama la mamma. Ha la voce impaurita. Inizio a sentire urla dalla roulotte. La porta si apre, ma ormai le fiamme hanno invaso tutta la traballante tettoia e la pedana di fronte alla porta, rendendo l’uscita impossibile. Anche dal lato, dall’unica finestra non è più possibile uscire a causa delle fiamme, alimentate dal mucchio di legna riposto sotto la roulotte. Guardo gli altri quattro signori che aspettano l’autobus. “Povera creatura” dice quello più anziano. Improvvisamente mi rendo conto di quello che sta succedendo. Il bimbo sta vedendo la mamma morire nel rogo, e noi stiamo qui a guardare. Corro verso di lui. Provo a cercare dell’acqua o qualsiasi altra cosa possa spegnere il fuoco. Trovo il catino che la signora stava usando per lavare, ancora con l’acqua dentro. Lancio l’acqua contro la porta della roulotte, per qualche secondo il rogo sembra diminuire. Se fossi venuto subito sono sicuro che sarei riuscito a spegnerlo. Urlo alla signora di uscire. Lei continua a gridare, non la capisco. Le fiamme si fanno sempre più alte. Il bimbo piange del pianto di un bimbo di cinque o sei anni che vede morire la madre di fronte a sè. Gli do la mano, lui affonda il suo viso nella mia gamba. Mi abbasso per abbracciarlo, esito un attimo perché puzza di sudore, e mi maledico per l’esitazione. Lo abbraccio con rabbia e piango anche io.

sabato 1 luglio 2017

Il mio razzismo non mi fa guardare

Ormai erano settimane che non mi alzavo dal letto del misero ospedale da campo della ONG che era stata sufficientemente caritatevole da prendersi cura di me, ad Oukbar. La febbre emorragica stava lentamente completando il suo corso. Avevo rifiutato l’offerta della Farnesina, ritardata e comprensibilmente tiepida, di organizzare una MEDEVAC (evacuazione per motivi medici). Poche settimane prima ero stato fonte di imbarazzo, sia per il governo italiano, sia, più in generale, per i governi occidentali.

Fino a poco tempo fa, ero una guardia giurata, un bodyguard, un buttafuori insomma, che tirava a campare tra incarichi di altalenante dignità. A me piaceva definirmi specialista in sicurezza, la locuzione mi sembrava desse l’immagine che desideravo la gente avesse di me. “Specialista” implica esperienza, istruzione pratica, utilizzabile. “Sicurezza” implica affidabilità, forza, capacità di gestire le situazioni. Purtroppo, la crisi non mi dava le opportunità che meritavo. Passavo da un lavoro ad un altro, con contratti temporanei, legati per lo più ad eventi. Avevo un paio di locali che mi garantivano un minimo di continuità di (poche) entrate, per il resto dipendevo della fortuna e dai miei amici che mi passavano le dritte sulle occasioni di lavoro.

La mia istruzione era stata, come si diceva nei romanzi di una volta, la strada. Mi vantavo di questo, e pensavo che l’abbandono della scuola subito dopo gli anni dell’obbligo, fosse stata la scelta giusta. Questa era una sorgente continua di discussione con mia madre, che avrebbe preferito che io avessi continuato a studiare. Mio padre, invece, prese la cosa serenamente. Se non hai la testa per studiare, diceva, cerca di averla per lavorare. Avevo razionalizzato a posteriori che permettere alla strada di forgiarmi fosse stata una scelta consapevole, deliberata. Una postilla di questa razionalizzazione voleva che io dubitassi di chi aveva un’istruzione formale, o anche semplicemente leggesse libri.
Non erano forse questi libri e giornali ad averci portato a questa crisi che stiamo vivendo? Questa pietà verso questa orda di barbari che ci stava invadendo, che arrivava fino all’assurdo di priviliegiare loro nell’assegnazione di case popolari e posti di lavoro. I libri e giornali certo non le riportavano queste notizie, ma cercavano invece di creare un senso di compassione per questi straccioni. C’erano delle eccezioni, alcuni libri e giornali che dicevano le cose come stavano, ma erano troppo pochi. I politici per la maggior parte davano il benvenuto a questa gente, oppure si opponevano troppo debolmente. Espellerli, pagandogli anche il viaggio di ritorno? Ero convinto che bisognasse lasciarli affogare in mare. Loro era stata la decisione di voler venire, che se ne assumessero anche i rischi. Perché i cittadini italiani devono pagare per salvare questi miserabili? Forse è proprio la scuola che mette in testa idee sbagliate, pensavo. La strada non sbaglia. L’esperienza forma sulla base della realtà, non sulla base di idealismi che non si possono applicare. Noi siamo italiani e stiamo in Italia, voi siete africani e state in Africa, o arabi e state in Arabia, non dovete venire a rompere le scatole qua da noi.

Purtroppo però, l’esperienza vera non viene ripagata come dovrebbe, pensavo allora, e faticavo a trovare impieghi stabili. La mia ragazza iniziava ad essere infastidita dalla precarietà, e mi aveva chiesto di considerare di prendere un diploma, per poter avere speranze di lavoro. Con tutta l’esperienza che avevo, mettermi a competere con dei ragazzini per un foglio di carta. Moltiplicai il mio impegno per svoltare, per trovare la soluzione ai miei problemi. Un giorno incontrai un vecchio amico del gruppo dal bar che frequentavo da ragazzo, Carmine. Avevamo provocato parecchie risse io e lui. Mi ricordo che la nostra tecnica era di provocare le coppiette, fino a far sbroccare il ragazzo, per poi picchiarlo davanti alla ragazza. A volte ci imbucavamo in delle feste, in gruppo. Uno di noi staccava il contatore della luce e giù botte a tutti. Scherzi di gioventù, che però ti insegnano un trucco o due che possono essere utili nella vita reale. Mi avvicinai, e lui si ricordò subito di me. Passammo qualche ora a parlare degli scherzi fatti da ragazzi. Immaginavo che lui fosse entrato in qualche giro grosso, e lui mi spiegò come era stato assunto da un azienda americana di sicurezza per lavorare all’estero. Il lavoro era duro, lontano da casa per parecchi mesi all’anno, ma la paga mensile era di un livello che non avevo mai visto. Arrivava a cinquemila euro, che tolte le spese voleva dire metterne da parte almeno tremila al mese. Faticavo a capire cosa si potesse fare con una cifra del genere ogni mese. Potevo entrare anch’io? Glielo chiesi subito. Lui mi disse che il lavoro era veramente duro, e con dei rischi, ma noi siamo nati e cresciuti duri, e ci siamo sempre presi i nostri rischi. Mi disse anche che i suoi superiori erano sempre in cerca di nuove persone, e che c’era già un bel gruppo di italiani. Gli risposi che ero disposto ad andare anche in capo al mondo per quei soldi. 

Quella sera fui come ubriaco dal pensiero di poter svoltare anch’io, di poter sposare Jessica ed andare a vivere insieme. Immaginai i posti dove sarei andato facendo un collage dei film di Van Damme, di Steven Seagull. Mi immaginai avventure esotiche dove anch’io avrei potuto far valere la mia esperienza, per poi tornare a casa e raccontare tutto a Jessica. Forse mi avrebbero pure fatto usare le armi, nei posti dove mi avrebbero mandato. Non le avevo usate spesso, ma quelle poche volte pensavo di aver fatto bene, e di avere un dono naturale nell’usarle. Non vedevo l’ora.
Carmine mi richiamò come promesso, qualche giorno dopo. Mi diede subito la buona notizia. C’era posto, non avrebbero neanche fatto un colloquio, si fidavano della parola e della garanzia di Carmine. Carmine mi spiegò che sarebbe arrivata a casa una lettera in inglese, che io avrei dovuto firmarla e rimandarla indietro. Fatto questo mi avrebbero mandato un biglietto a casa per la mia prima destinazione.

Jessica non fu molto contenta all’inizio, ma quando le raccontai di Carmine, e di come tutti gli amici lo festeggiarono quando venne con la BMW, iniziò a cambiare idea. Le piaceva l’idea di avere un mensile fisso e di potersi sistemare. Passammo il pomeriggio a fantasticare sul nostro futuro stile di vita.

Dopo un paio di settimane, in cui temetti che si fossero dimenticati di me, ricevetti la lettera. Non ci capivo nulla, ma capivo dove dovevo firmare, e comunque mi fidavo di Carmine. Firmai e la rimandai indietro. Dopo un’altra settimana, mi arrivò la lettera con il biglietto aereo. Avrei iniziato ad Oukbar. Ebbi qualche tentennamento. Non mi piacevano quei posti pieni di musulmani. Non ci si poteva fidare di quella gente. Ormai avevo firmato, pensai, e mi rassegnai a dover andare.
Partii di Domenica. Mi ricordo il senso di perdita nel lasciare l’Italia, e nel dare l’ultimo saluto a Jessica ed ai miei genitori in aereoporto. Cos’avrei trovato dall’altra parte? Mi ricordo vivamente l’uscita dall’aeroporto di Oukbar, quella folla di bambini e straccioni che mi urlavano per offrirmi qualcosa, immaginavo volesser soldi. Un caos, un caldo ed una puzza che andavano oltre la mia immaginazione. Mi pentii di aver accettato, mi sentii perso per un istante, finchè non vidi un tizio con un cartello con il nome dell’azienda che mi aveva assunto, e subito sotto il mio nome. Fu come un faro nella nebbia, lo seguii fino alla calma della macchina con aria condizionata che lasciava il caos di quel posto infernale fuori.

Il tizio fortunatamente parlava italiano, e mi spiegò che il mio superiore, e diversi operativi del mio gruppo erano italiani. Quando sentii la parola “operativi”, mi sembrò che l’esperienza divenne reale, che il lavoro sarebbe stato importante, e mi sforzai di ripetere quella parola più volte nel raccontare le mie esperienze “operative” passate. Le gonfiai un pò per non sembrare inadeguato all’importanza del mio nuovo lavoro.

Mi presentarono al mio nuovo capo, che si faceva chiamare “Martello” in italiano e “Hammer” in inglese. Quello era il suo nome in codice, mi dissero. Pensai che avrei dovuto sceglierne uno anch’io, forse. Martello mi spiegò per sommi capi qual’era il nostro lavoro, ma disse che il briefing era schedulato per il giorno dopo, alle sette zero zero. Mi illuminai nel sentire le parole “briefing” e “schedulato”, e nel sentire l’orario espresso come i militari americani (sette zero zero sta per sette in punto di mattina). Altro che le serate da buttafuori, qua si faceva sul serio.

Dopo una notte agitata, in parte dalla paura del posto ed in parte per l’emozione del nuovo lavoro, mi presentai per il briefing in perfetto orario. Mi fecero un introduzione di circa quattro ore in cui coprirono diversi aspetti del nuovo lavoro. In primo luogo mi diedero un introduzione alle usanze locali. Mi dissero di evitare contatti con la gente del posto il più possibile. Ad andare bene ti chiedono soldi, ad andare male ci odiano. Mi mostrarono poi una serie di foto che documentavano i dettagli cruenti di alcuni attentati che erano avvenuti ad Oukbar. Martello mi disse che le aveva scattate lui, per usarle nel briefing introduttivo. Mostravano parti di membra e parti del corpo umane dilaniate da varie esplosioni, una persona tranciata a metà, con gli occhi aperti, mi sembrava viva, ma la parte inferiore mancante dall’ombelico in giù. Poi una donna senza le gambe, con un pezzo di osso che le usciva dalla gamba destra, presa nell’atto di guardarsi intorno. Perché si guardava intorno? Perché non urlava dal dolore? Dopo la prima decina di foto, mi venne da vomitare, ma mi trattenni, che figura avrei fatto? Cercai di soffermarmi su particolari insignificanti, per non distogliere lo sguardo, ma allo stesso tempo resistere alla nausea. Notai come la carne umana assomiglia alla carne di pollo, non a quella bovina o suina. Il pensiero mi fece aumentare la nausea, e passai a concentrarmi sugli oggetti nelle foto, per evitare di guardare persone, intere o a pezzi.

Alla fine della collezione di foto, Martello mi spiegò che questo era quello che questa gente fa ai loro stessi compaesani, figurarsi cosa sono disposti a fare agli stranieri. Che queste foto ti siano di insegnamento, tieniti alla larga da loro, e diffida sempre, mi spiegò. Poi mi spiegò dei vari edifici dell’azienda americana per la quale lavoravamo, degli spostamenti quotidiani, del nostro ruolo nel garantire la sicurezza e dei protocolli di comunicazione. Poi passò alla parte che mi fece passare la nausea, le dotazioni di sicurezza assegnateci. Sia i gadget per le telecomunicazioni, che le armi erano di ultima generazione. Mi sentivo come un bambino in un negozio di giocattoli. Mezza giornata alla settimana era dedicata al poligono. Finalmente avrei potuto sparare con continuità, pensai.

Passarono alcune settimane in cui cercai di imparare dagli altri. Capii che in fondo si trattava di scortare persone da un posto all’altro e di garantire la sicurezza di un paio di stabilimenti fuori dalla città. Inizialmente mi occupai di dare supporto ad operativi più anziani negli spostamenti, e mi ritrovai negli stabilimenti solo di passaggio. Un giorno accadde un incidente in uno degli stabilimenti dove avevo accompagnato delle persone. L’operativo di stanza nello stabilimento per quella settimana si era sentito male. Dissenteria, probabilmente, a volte capitava. Dovette essere riportato indietro, ma bisognava lasciare qualcuno in stabilimento. Mi chiesero se me la sentivo. Certo, risposi. Presi tutta la mia dotazione di sicurezza e mi fu assegnata una stanza all’interno del perimetro dello stabilimento. A causa di scarsità di personale, e del malessere del collega, eravamo solo in due, per cui dovevamo fare turni di dodici ore a testa finché non ci avessero mandato rinforzi.

Essendo l’ultimo arrivato mi toccò la notte. La prima notte passò senza incidenti. Ero però molto nervoso perché mi rendevo conto che era impossibile controllare tutto. Spesso vedevo gente del posto, che lavorava in stabilimento, spostarsi dalla propria postazione ed andare in giro all’interno del perimetro. Era sicuramente una situazione molto rischiosa.

La seconda notte, una notte terribilmente calda, rimasi a controllare dalla mia postazione in alto, con aria condizionata, da cui vedevo buona parte dell’area dello stabilimento. Ogni paio d’ore facevo un giro. Avevo deciso di farlo ad intervalli non regolari. Mi ricordavo che nei film, chi voleva entrare o uscire da un posto cronometrava il giro delle sentinelle. Con me non avrebbe funzionato. Alla prima uscita, verso le ventidue zero zero vidi un tizio con una barba lunga, che sembrava molto nervoso, sudato, che era appena uscito dal bar. La parte esterna del bar, aperta anche ai lavoratori locali, era però chiusa. Era senz’altro uno del posto, da come vestiva. Mi avvicinai senza farmi vedere. Aveva un giubbetto con molte tasche, tutte piene di oggetti cilindrici, mi sembrava. Sentivo sirene di allarme nella mia testa. Questo ha in mente qualcosa di brutto, pensai. Era appena fuori dal muro dell’edificio dove abitavano i manager dello stabilimento, tutti occidentali. Il muro dava sul cortile interno, vicino alla parte del bar che dava sull’interno, ancora aperta, dove a quest’ora probabilmente stavano ancora seduti tutti a chiacchierare e bere birra. Mi dava le spalle, e prese uno degli oggetti cilindrici, fece il gesto di togliere la spoletta dalla bomba e capii subito tutto. Estrassi la mia pistola e feci subito fuoco, tre colpi. Sono un grande, pensai, uno dei colpi lo aveva colpito alla testa uccidendolo subito. Non aveva avuto il tempo di buttare la bomba al di là del muro. Il muro avrebbe resistito ad una bomba a mano. Mi gettai a terra ed urlai, per farmi sentire anche dall’altra parte del muro, di gettarsi tutti a terra. Udii un vociare agitato dall’altra parte, e attendevo l’esplosione. Contai fino a dieci, e non venne. Contai fino a venti ed ancora niente. Dall’altra parte, dopo essere stati in silenzio per qualche secondo, ripresero a parlare, dubbiosi. Vidi che alcuni iniziarono cauti a passare attraverso il bar, per uscire fuori e capire cosa era successo. Li fermai con voce imperiosa. Chiamai l’altro operativo, sostanzialmente il mio superiore in quella situazione. Nel frattempo iniziai ad avvicinarmi, per vedere se c’erano altre bombe nelle tasche dell’individuo. Aprii una tasca delicatamente, e vidi due lattine di birra. Raggelai improvvisamente. Cercai la bomba che avrebbe dovuto avere in mano, e vidi una lattina di birra rotolata ad un paio di metri di distanza dal corpo, e la linguetta, rimossa dalla lattina, ancora incastrata nel dito indice della mano destra dell’individuo. Immagino che svenni a quel punto, perché non ricordo più nulla.

Quando mi svegliai, vidi lo sguardo severo e sprezzante di Martello. Senza nessun riguardo per lo shock che avevo avuto mi iniziò ad urlare che ero un imbecille, e che se ne era accorto subito. Che si era stancato di ricevere bulletti che credevano di essere del mestiere e si rivelavano femminucce, ad andare bene, o imbecilli, nel peggiore dei casi. Immaginai in quale categoria mi aveva messo.

Dopo avermi urlato contro per una decina di minuti mi disse che avevo due possibilità: o mi consegnavano alle autorità locali, oppure dovevo firmare una carta dove dichiaravo di non avere mai avuto nulla a che fare con loro e mi avrebbero dato un biglietto per tornare a casa con un calcio nel sedere. Loro avrebbero provveduto a ripulire la scena e comprare il silenzio della famiglia della vittima, come avevano fatto nel passato nel caso di incidenti sul lavoro.
Terrorizzato all’idea di finire in una prigione di questo paese di selvaggi, firmai subito. Martello mi diede un biglietto per tornare in Italia il giorno dopo (anzi oggi stesso, visto che era passata la mezzanotte). Senza altre cerimonie, approfittando che ero ancora in confusione, mi mise letteralmente fuori dal cancello esterno dello stabilimento, in strada, con la mia valigia, che qualcuno doveva aver preparato nel frattempo.

Era mezzanotte e non avevo idea di cosa fare. Iniziai a spaventarmi, pensando a cosa mi avrebbe potuto fare la gente di questo paese. Mi sedetti fuori dal cancello, aspettando l’alba. Mi svegliai poco prima dell’alba, quando il cancello si aprì per fare uscire un convoglio, presumibilmente diretto ad Oukbar. Chiesi un passaggio, ma mi guardarono come si guarda un ridicolo idiota, sicuramente la storia dell’imbecille che aveva sparato ad un tizio che stava aprendo una lattina di birra aveva fatto il giro dello stabilimento. Mi lasciarono lì. Non avevo idea ci come avrei potuto raggiungere Oukbar, e quindi l’aeroporto. Aspettai che uscisse qualcun’altro, e mi ripromisi di attaccarmi alla macchina e di non farli proseguire, a meno che non mi avessero portato con loro. Dopo mezz’ora, si riaprì il cancello ed uscì un altra macchina. Mi misi di fronte, per non farli passare. Li vidi indecisi, presero il telefono per chiamare. Dopo due minuti arrivò Martello, con una mazza da baseball, urlando. Mi allontanai correndo con la valigia e la macchina prese la via di Oukbar. Iniziai a seguire la strada verso Oukbar, camminando. Ero molto spaventato. Guardavo le macchine che passavano, sperando di vedere qualche straniero che potesse darmi un passaggio. Dopo una decina di minuti si fermò una macchina, era un tizio del posto, e mi chiese qualcosa nella sua lingua. Non era aggressivo. Feci il gesto per spiegare che non capivo e se ne andò. Se ne fermarono un altro paio, stessa sequenza di azioni. Poi se ne fermò un’altro, questo parlava inglese, ma io purtroppo no. Dopo qualche tentativo disse, scandendo le parole come ad un bambino: “DO YOU GO TO OUKBAR?”, questo lo capii. Risposi di sì, ma non troppo convinto. Mi offrì un passaggio, ero molto timoroso, ma accettai. Continuare a camminare non mi avrebbe portato ad Oukbar in tempo ed avrei perso l’aereo.
Il tizio provò ad iniziare una conversazione in inglese, ma non riuscivo a seguirlo, così rinunciò. Arrivati alla periferia della città, mi chiese, scandendo le parole “WHERE DO YOU GO?”. Gli dissi che andavo all’aeroporto, e mimai gli aerei che partono. Mi disse qualcos’altro, ma non capii. Dopo dieci minuti si fermò e mi fece scendere. Immagino che cercava di dirmi che mi avrebbe lasciato lì, perché doveva andare e mi diede indicazioni per arrivare all’aeroporto. Le ripetette tre volte, a gesti, per assicurarsi che avessi capito. Non ero sicuro di avere capito, ma feci finta di sì, per non sembrare stupido.

L’aereo sarebbe partito tra quattro ore, pensai che sarei riuscito ad arrivare, anche a piedi. Mentre ero in macchina avevo visto la direzione degli aerei in atterraggio ed in partenza ed avevo un idea di dove fosse l’aeroporto. Mi incamminai nella direzione che avevo in mente. Ogni tanto vedevo gli aerei decollare o atterrare, anche se ancora non troppo vicini, ma più o meno nella direzione dove stavo andando. Il tempo passava, mancavano adesso tre ore, e mi ero avvicinato, ma non ancora abbastanza. La valigia mi rallentava. Vedevo gli aerei più vicini, ma non vedevo l’aeroporto. Dopo un’altra ora, iniziai a vedere gli aerei più vicini, mancavano adesso due ore, ed ancora non ero in aeroporto. Aprii la valigia, presi le cose più importanti, le misi in una busta di plastica abbandonando il resto, e mi misi a correre. Dopo meno di mezz’ora vidi finalmente la pista dell’aeroporto a meno di un chilometro di distanza, e mi si aprì il cuore: finalmente. Giunsi fino alla rete che delimita la pista. Adesso dovevo solo costeggiarla ed arrivare all’ingresso passeggeri. Guardai per capire dove andare e mi scappò un urlo di disperazione, era dalla parte opposta. Avrei dovuto fare tutto il giro esterno.

Lasciai anche il sacchetto e ripresi a correre seguendo la strada che costeggiava la pista. Ad un certo punto la strada si allontanava dalla pista e andava verso l’interno. Disperato, chiesi a gesti ad un ragazzo là vicino su un motorino, se mi avrebbe portato all’aeroporto. Gli mostrai cento dollari. Il ragazzo mi fece salire e partii. Vidi che girava e andava dalla parte opposta, gli gridai di tornare indietro, lui mi disse qualcosa nella sua lingua, ma poi seguì le mie indicazioni. Vidi che si allontanava dall’aeroporto, allora gli gridai di fermarsi, lo mandai a quel paese e scesi. Non riuscivo più a ragionare. Corsi verso l’aeroporto. Dopo venti minuti, ormai mancava meno di un ora alla partenza, un tizio del posto, in macchina, si fermò e mi chiese qualcosa in inglese. Gli risposi che non capivo, in italiano. Allora lui, in italiano stentato, mi ripetè la domanda. Appena sentii il suo italiano scoppiai a piangere e gli chiesi di accompagnarmi in aeroporto che il mio aereo stava partendo. Mi fece salire e girò per tornare indietro, gli dissi che l’aeroporto era dall’altra parte, e lui mi spiegò che non c’era una strada per l’aeroporto da quella parte, perché c’è un’enorme palude che si estende per parecchi chilometri. Bisognava tornare indietro. Maledii me stesso e pregai Iddio che mi facesse arrivare in tempo. Arrivammo dopo poco più di mezz’ora. Scesi correndo e cercai i banchi del check-in. Superai la fila perché non c’era molto tempo. Un tizio mi urlò qualcosa, presumibilmente per lamentarsi del mio comportamento, io gli urlai di contro delle male parole e continuai. Arrivato al banco, chiesi alla signorina di farmi fare il check in. Lei mi disse qualcosa in inglese, immagino mi disse di tornare indietro e rispettare la fila. Io le urlai contro che era tardi. Lei mi ignorò e continuò a servire il passeggero successivo. Sperai di avere la mia pistola. Dopo altre urla da parte mia si decise a vedere il mio biglietto. Guardò verso la lavagna con gli orari, sgranò gli occhi, poi mi guardò in faccia e mi disse qualcosa. Andò nel retro, in ufficio e tornò con un signore. Questo signore parlava un pò di italiano. Mi spiegò che era troppo tardi. Ormai mancavano meno di dieci minuti. Mi fece segno di seguirlo e mi mostrò dai vetri che danno sulle piste l’aereo dell’Alitalia. In quel momento si vide un addetto con un giubbetto fosforescente che uscì dall’aereo, e la porta che si chiuse. Chiesi all’uomo di chiamarli, di fermare l’aereo. Lui mi spiegò che non si poteva. “Come non si può, per forza si può. Come faccio adesso?”, risposi urlando. Lui mi indicò nuovamente l’aereo, che iniziò a muoversi  in quel momento per raggiungere la pista di decollo. Per la seconda volta in poche ore, svenii.
Rinvenii dopo pochi minuti, immagino. C’era un infermiere vicino a me. Il tizio che parla italiano mi chiese se volevo essere accompagnato in ospedale. Certo che no, risposi. Mi propose di andare in biglietteria per vedere se potevo cambiare il biglietto per il prossimo volo. Andai, ormai fiaccato dalla sfortuna. In biglietteria, naturalmente, mi dissero che non era possibile. Era un biglietto superscontato che non prevedeva cambiamenti o rimborsi. Chiesi quanto costava un nuovo biglietto per il prossimo volo. Non possedevo quella somma. Non avevo idea di cosa fare.
Tornai dal tizio che parlava italiano. Mi propose di chiamare l’ambasciata italiana. Chiamai l’ambasciata. Appena detti le mie generalità, dall’altro capo del telefono mi chiesereo di non andare da nessuna parte. Sarebbero venuti a prendermi loro subito. Arrivarono in tre. Appena li vidi mi tornò la speranza. Provai a raccontargli la mia disavventura, ma mi zittirono e con una faccia seria e mi chiesero di seguirli in ambasciata. Arrivati in ambasciata mi chiusero in una stanza. Arrivò un carabiniere. Mi chiede le mie generalità. Mi chiede di raccontargli dove sono stato nelle ultime ventiquattro ore. Dissi tutto, dimenticandomi di aver firmato una carta che dice che io non avevo mai avuto nulla a che fare con la ditta dove avevo lavorato, ma ometto il fattaccio.
Il carabiniere uscì. Rientra dopo circa un ora, con Martello. Il carabiniere mi guarda, come si guarda un ridicolo idiota, lo stesso sguardo di Martello, e mi spiega la mia situazione. A quanto pare la notizia dell’uccisione è di ominio pubblico. Qualche dipendente italiano l’ha comunicata ai media italiani, e qualche dipendente locale ha informato la polizia del posto. Il Presidente di questo paese si è lamentato formalmente con l’Italia. Poco dopo, Martello, è riuscito a convincere la polizia locale che il tizio stava rubando della birra. Stranamente, in questo paese, puoi sparare a chi ti ruba qualcosa. Quindi, qui sicuramente non sarei stato incriminato. Questo caso però è diventato un imbarazzo sia per l’Italia che per l’Unione Europea. L’ambasciata non mi può aiutare. Sembrerebbe che mi stiano sottraendo alla giustizia locale. Ero libero, potevo andare. Dove?

Vagai per Oukbar. Avevo paura di quando sarebbe sceso il buio. Avevo qualche soldo per pagarmi un paio di notti di albergo. Scesi un albergo dove vedevo anche stranieri, ma non troppo costoso. Passai due giorni e due notti nella stanza, non mi sentivo bene. Finii i soldi. Tornai a vagare per la città, con un forte mal di testa e nausea. Vidi una clinica gestita da europei o americani. Entro e svengo.

Mi risvegliai in un letto della clinica. Un’infermiera del posto mi sistema l’ago della flebo. La caccio via, non è che mi fa venire qualche malattia con quelle mani sporche? Viene un dottore, lui è occidentale. Non parla italiano, e chiama un collega italiano. Gli spiego quello che è successo. Mi guarda anche lui come se fossi un ridicolo idiota. Mi spiega che io sono in cura come cortesia, non per diritto. Se continuo a maltrattare le infermiere mi butta fuori.

Passarono i giorni. La mia salute non migliorava. Avevo una letargia ed una spossatezza che mi faceva dormire quasi tutto il tempo. Tutti i dottori occidentali mi guardavano come se fossi un ridicolo idiota. I dottori e gli infermieri del posto mi guardavano invece con gentilezza. Non mi accorgo subito di questa differenza, ci metto un pò. 

Una delle infermiere che parla italiano, l’unica che chiacchiera con me e mi da un pò di conforto, mi spiega che sua sorella sta provando ad andare in Italia. Il marito l’ha lasciata. Appena ha visto per la prima volta la prima figlia, appena nata in ospedale, ha picchiato mia sorella e l’ha lasciata. Aisha ha entrambe le gambe malformate. La malformazione nel nostro villaggio è vista come una maledizione. Il diavolo ti ha fatto visita, pensano. Una donna sola non ha futuro qui, mi dice l’infermiera. Le servono strutture e servizi adeguati per poter crescere la figlia dignitosamente. Mi chiede se in Italia esistono queste strutture. Rispondo di sì. Auguro buona fortuna a sua sorella, sinceramente.

Sono stato un ridicolo idiota. Speriamo che le storie su quelli che si convertono in punto di morte siano vere. Gesù, Muhammad, ho sbagliato tutto. Perdonatemi e prendetemi con voi.

venerdì 16 giugno 2017

Traiettorie impercettibili

Aveva raggiunto il fondo. Non era la prima volta. Le volte precedenti era convinto che sarebbe riuscito ad uscirne. Aveva sentito una liberazione, nel raggiungere il fondo. Una convinzione che sarebbe stato un nuovo inizio, che sarebbe stata un’opportunità per cambiare tutto. Questa volta no. Sapeva dalle esperienze precedenti, che non ci sarebbe stata nessuna rinascita. Semplicemente avrebbe continuato a scavare e la sua miseria avrebbe raggiunto nuovi ordini di grandezza.

Aveva già perso il lavoro altre volte. Grazie a suo fratello, era riuscito a trovare lavoro in una agenzia delle Nazioni Unite, però era stato costratto a trasferirsi ad Oukbar. Aveva bisogno dei soldi per pagare gli alimenti a sua moglie, che lo aveva lasciato anni prima.

Il problema era imbarazzante, e gli veniva continuamente da piangere a pensarci. Prima di arrivare ad Oukbar pesava 180 chili. Era stato imbarazzante dover spiegare all’ufficio del personale che aveva bisogno di due posti in aereo per poter raggiungere il posto di lavoro. Apparentemente non avevano procedure per poter gestire quel genere di situazioni. Da allora, circa sei mesi fa, non si era più pesato. Sapeva, inconsciamente, che stava ancora ingrassando, ma non aveva voluto pensarci. Due settimane prima aveva avuto una fortissima infiammazione al ginocchio, una delle più comuni complicazioni dell’essere sovrappeso. Aveva sempre rifiutato di definirsi obeso, ma doveva assolutamente imparare a farlo. Era un obeso. Sapeva che anche una piccola perdita di peso poteva fare la differenza a far lentamente passare quell’infiammazione cronica. Invece aveva preso dosi massicce di antinfiammatori. Per una settimana era stato in malattia, e per un’altra aveva optato per lavorare da casa. I nuovi datori di lavoro adottavano dei regolamenti molto aperti nei confonti del proprio personale. Queste due settimane, aveva praticamente vissuto nella propria stanza di albergo, facendosi portare i pasti (e gli spuntini) in camera. Rimaneva in camera perfino quando la cameriera veniva per pulire. La cameriera era veramente gentilissima, quando aveva dolore al ginocchio, lo aiutava a muoversi, alzarsi dal letto. Lui le dava una lauta mancia ogni volta. Aveva continuato ad usare l’aiuto della cameriera anche quando il ginocchio aveva iniziato a fare meno male. Muoversi era comunque complicato con tutto quel peso addosso.

Dopo le due settimane, quando finalmente il dolore era passato, doveva tornare a lavoro. Era molto preoccupato di questo, e non aveva dormito la notte precedente. Dopo due settimane, aveva di nuovo rimesso la sveglia. Appena svegliato, la prima complicazione: alzarsi, senza l’aiuto della cameriera.
Era difficile e faticoso, ma l’aveva fatto sempre, prima. La manovra consisteva nel rigirarsi di fianco, vicino al bordo del letto, fare scivolare la gamba destra fino al pavimento e sollevare il busto, puntellandosi con il braccio destro sul letto. Al secondo tentativo vi riuscì, rimanendo seduto nel letto. Alzarsi era un esercizio di equilibrio, ma prevedendo la difficoltà aveva avvicinato la sedia per puntellarsi. Dopo un paio di tentativi, anche questo scoglio viene superato. Un breve passaggio in bagno. Non riusciva a fare tutto ciò che andrebbe fatto, in termini di igiene personale. Non se ne rendeva pienamente conto, però. Le poche gocce che raggiungevano le parti più nascoste del suo corpo, non bastavano certo a garantire una perfetta pulizia. Alcune parti, le asciugava col fono, perché non riusciva con l’asciugamano ad arrivare a toccare tutte le superfici del corpo.

Non appena vestito – ed anche questo con qualche difficoltà – provò ad uscire per andare a lavoro. Come sempre, si mise di lato per poter passare dalla porta, secondo lui più piccola degli standard europei. Niente, non ci passava. Neanche tirando indietro la pancia con le mani, come faceva in precedenza. Era rimasto incastrato. Dopo qualche tentativo, riuscì a rientrare in stanza. Di uscirne, non se ne parlava. Ansimante dalla fatica, si rimise a letto, completamente vestito. Era disperato. Come sarebbe uscito da questa situazione?

Chiamò subito l’ufficio, non poteva perdere il lavoro di nuovo. Chiese se poteva, ed inventò una scusa pietosa, lavorare dalla sua stanza per un altro giorno. Dall’altro capo del telefono si percepiva il fastidio, comprensibile. Aveva iniziato da pochi mesi e da subito aveva iniziato a mancare per molti giorni, campando storie assurde. Non era risultato simpatico in ufficio. Come può essere simpatico un ciccione dall’igiene discutibile?

Pianse per molto tempo, silenziosamente. Ai lati della testa si crearono due macchie che piano piano si allargarono, man mano nutrite dalle copiose lacrime versate. Era veramente arrivato a toccare il fondo. Era impossibile risalire. Non c’era più nulla da fare. Era solo, in un paese straniero. Sarebbe presto stato licenziato perché non poteva andare a lavoro. Non poteva badare a sé stesso in maniera dignitosa. Era confinato in una stanza.

Svegliatosi, si rese conto che aveva fame, e maledì la sua gola insaziabile. D’impeto, decise che dal giorno dopo avrebbe smesso di mangiare, e avrebbe bevuto solo té. Aveva letto di quel tizio in Inghilterra che aveva perso centoventi chili in quel modo. Nello stesso tempo che quel pensiero attraversò la sua mente, raggiunse il telefono per chiamare il servizio in camera per ordinare i tre panini per lo spuntino di metà mattina. Domani, domani avrebbe iniziato la dieta.

Finiti i tre panini, riprese a piangere. Pianse del suo pianto, che visto da fuori sarebbe sembrato l’archetipo delle lacrime di coccodrillo, che piange dopo aver mangiato la preda. Quello che la gente da fuori non avrebbe capito era che lui piangeva per la sua assoluta disperazione di non essere stato capace di fermarsi. Di aver realizzato che un giorno, allegramente, aveva mangiato fino ad oltrepassare un impercettibile orizzonte degli eventi prima del quale ti puoi salvare e passato il quale cadi per sempre nel buco nero, e ti confondi con esso.

Cercò di isolare quel giorno maledetto, il momento in cui aveva toccato un fondo dal quale c’era speranza di uscire, e non lo aveva fatto, ed invece aveva ordinato altri panini.

Avrebbe dovuto fermarsi prima di perdere il suo primo lavoro. Un lavoro che normalmente gli avrebbe permesso di fare una ragionevole ed onorevole carriera, e che gli avrebbe permesso di mantenere agevolmente la sua famiglia e sostenere il futuro dei suoi figli. Cercò nella sua memoria, il momento preciso dell’inizio della discesa. Si ricordava dell’inizio, quando andava a pranzo con i colleghi, e si rideva in compagnia. In incrementi impercettibili si era poi ritrovato a mangiare nei fast food da solo, sia durante le pause caffè che durante la pausa pranzo. Era stato segato in una riorganizzazione aziendale. Uno, tra i colleghi del suo ufficio, sarebbe dovuto essere licenziato. La scelta del management era inevitabile. Appena fu fatto l’annuncio, tutti capirono chi sarebbe stato fatto fuori. Poteva essere visto come un problema di proporzioni, di pesi, di volumi, di spazio occupato. In questo senso era un problema scientifico, quantificabile, di ovvia soluzione. Poteva anche essere visto come un problema sociale, di appartenenza di gruppo, di similitudine, di empatia, di saper stare con gli altri. In questo era un problema di intelligenza emotiva, anch’esso di ovvia soluzione. Era chiaro anche a lui, e per questo non si oppose, e fu licenziato, e lui stesso si allontanò, come tutti si aspettavano. Quello che non si aspettava era lo sguardo mentre se ne andò. Lo ricordava ancora. Uno sguardo con i sottotitoli: Come ha fatto a ridursi così?

Fu dolorosissimo, la prima volta che vide quello sguardo. Andò nel fast food vicino a piangere e mangiare. Quella fu la prima volta che promise a sé stesso che il giorno dopo avrebbe iniziato una dieta ferrea.

Dopo quel giorno passò da un impego ad un altro, in una spirale discendente. L’altro giorno che avrebbe dovuto marcare il confine fu quando sua moglie se ne andò da sua madre, portando i suoi figli con sé. Pianse e mangiò fino alla vergogna. Vomitò e rimangiò. Allontanò il pensiero di quel giorno, troppo doloroso.

Suo fratello lo aveva aiutato qualche volta, da lontano. Lo aveva convinto, molti chili fa, a seguire la dieta del sondino, pagandone tutte le spese. Aveva seguito fiduciosamente il corso obbligatorio, requisito fondamentale per potersi sottoporre alla dieta; senza attestato di partecipazione il trattamento non poteva aver luogo. Nei canonici dieci giorni di durata della dieta riuscì a perdere 12 chili. Non era sicuro in quanti giorni li riprese tutti. Quando si sentiva in colpa evitava di guardare, e quindi di usare, la bilancia e perdeva quindi la cognizione del suo peso. Quando vedeva suo fratello, temeva sempre il suo sguardo iniziale nell’incontrarlo, che poi in pochi secondi diventava forzatamente fraterno, ed il suo sguardo nel lasciarlo: Come ha fatto a ridursi così?

Tempo dopo, suo fratello gli offrì la salvezza di un nuovo impiego, stabile, e di un nuovo paese ed una nuova vita. Già aveva capito che era stato inutile. La velocità verso questo ulteriore confine era ormai tale che non sarebbe riuscito a rallentare in tempo. Ricordando i suoi studi da ingegnere, pensò che in fondo era una legge fisica. La quantità di moto di un corpo dipende in modo lineare dalla sua massa. La sua traiettoria, ad incrementi inizialmente impercettibili, l’aveva ormai portato vicino al confine di non ritorno e la sua massa era troppa. Non si sarebbe potuto mai e poi mai fermare prima di rovinare tutto. Fosse stato più magro, più leggero, la fisica gli avrebbe permesso di frenare in tempo, prima del confine. I suoi nuovi colleghi l’avevano isolato quasi subito, forse perché era troppo grasso, o forse perché, beh, puzzava.

Non riusciva a passare dalla porta della sua stanza d’albergo. Immaginò un nuovo sé, magro, ridere di questa situazione in spiaggia, in costume, sdraiato nella sabbia vicino ad una bellissima donna. Stranamente, gli venne da ridere, per qualche secondo, ma smise quasi subito.

Allungò la mano verso il comodino, prese il telecomando ed accese il televisore. Girò tra i vari canali, finché non si fermò su un documentario della BBC, parte di una serie sul cambiamento climatico. Un infografica spiegava come il peso combinato di tutti gli esseri umani era di circa trecento milioni di tonnellate. Era dotatissimo con i numberi e fece i calcoli rapidamente: pensò che non era tutta colpa sua, lui rappresentava solo lo poco più che un miliardesimo di quel peso. Uno virgola sei periodico su un miliardo, per la precisione, disse a se stesso, fiero come sempre della sua velocità nei calcoli. L’infografica poi spiegava come vi erano anche settecento milioni di tonnellate di animali da macello, tenuti per la maggior parte in allevamenti meccanizzati. Infine, ed era questo il punto centrale dell’infografica, ci sono meno di cento milioni di tonnellate di animali di taglia paragonabile a quelli da macello, liberi in natura.

Il documentario continuava, spiegando come durante gli ultimi duecento anni, la vera rivoluzione industriale è stata nell’agricoltura e nell’allevamento. Di come prima la maggior parte dell’umanità era impiegata nell’agricoltura e nell’allevamento e manteneva la piccola parte che si occupava di altro, mentre adesso, in alcune nazioni, il due per cento degli occupati nell’agricoltura ed allevamento sono sufficienti a sfamare il restante novantotto per cento. Fantastico, certo, ma a quale costo?

Gli stessi animali sono stati meccanizzati. Prima venivano visti come esseri viventi che possono sentire dolore, e anche sensazioni di soddisfazione, piacere. Adesso, invece, sono gestiti in catene di montaggio. Lo schermo mostrava un nastro trasportatore con pulcini, alcuni dei quali, imperfetti, venivano presi da degli operatori in camice bianco, e buttati. In modo simile, le mucche, sia da carne che da latte, venivano tenute in spazi strettissimi, con gli esemplari non idonei, abbattuti in nome del profitto.

Il documentario passò poi a spiegare che nel passato, fino a pochi anni fa per la verità, lo stile di vita considerato virtuoso era la frugalità. Si ricordò dei propri nonni, e di come erano impacciati le pochissime volte che venivano a mangiare fuori con loro, di come gli sembrasse un lusso non necessario. Mostrarono immagini della pubblicità dei fast food, delle offerte mangiane due che il terzo è gratis, che lui conosceva bene, e di cui aveva approfittato fino al ridicolo. Spiegavano come le moderne tecniche pubblicitarie, erano inclini a far apparire come reali bisogni fittizi, al solo scopo di allargare continuamente la produzione, di come legavano la felicità personale con il consumo continuo.

L’immagine successiva riprendeva un maiale, considerato uno degli animali più intelligenti, dopo le scimmie, costretto a vivere dalla nascita in uno spazio sufficiente appena a contenerlo, senza neanche potersi girare, negli stessi propri escrementi. La ripresa iniziava dalla parte posteriore del maiale, girandogli lentamente attorno, fino a riprenderlo di fronte, negli occhi.

Non riusciva a sopportare quelle immagini, si vide nei panni di quel maiale, costretto a vivere per sempre nei propri escrementi, chiuso in quella stanza di albergo. Gli venne una nausea improvvisa, con conati di vomito, pensando che aveva mangiato carne di maiale poco prima. Poi gli venne un attacco di ansia, e iniziò a respirare affannosamente, come se avesse un peso sul petto. Sapeva che i soggetti obesi presentano un aumentato rischio di aritmie e morte improvvisa, anche in assenza di disfunzione cardiaca. Ci sperò, prima di chiudere gli occhi.

domenica 11 giugno 2017

Rapimento alieno

A volte, nella notte, ci pensava. Come sarebbe stata la sua vita se non fosse stata rapita? Curiosamente, ormai era un pensiero accademico. Non c’era più alcun rimpianto. Considerava la sua situazione normale, anche se presentava ovvie stranezze che le davano da pensare, cui non riusciva ad abituarsi completamente.

Aveva un ricordo di sua madre ormai sbiadito. Ricordava come man mano sua madre avesse perso interesse in lei ed i suoi fratelli. Passava le ore distesa, disinteressata a loro. Ricordava vagamente il dolore di quelle volte che ancora provava ad avvicinarsi e lei, ad andare bene, si girava dall’altra parte, o peggio, la cacciava in malo modo. Nella sua mente, lo considerava un passaggio naturale, dopo averla cresciuta, con sacrifici, quasi con naturalezza, sua madre non si sarebbe più presa cura di lei.

Ricordava vagamente questo passaggio, e ricordava altrettanto vagamente il giorno che fu portata via. Fu in primavera, ne era certa. Arrivarono di mattina, erano altissimi, oscuravano il cielo con la loro statura. Avevano una postura innaturale, che non aveva mai visto prima, ed un incedere insicuro, lento. Non sembrava normale che esseri, senz’altro viventi, potessero muoversi in quel modo che sfidava le leggi della fisica. Emanavano un odore fortissimo, dolciastro, quasi nauseante. Non aveva mai sentito un odore simile. Comunicavano tra loro con dei suoni incomprensibili, monotoni ed appena percepibili. A volte sembrava provassero a comunicare con lei, ed allora alzavano il volume, ma rimanevano incomprensibili. Poi avrebbe imparato a capire qualcosa del loro stranissimo linguaggio. Sua madre era via, quando loro arrivarono, in quelle sue solite scorribande senza orario, a volte di giorno, e a volte di notte, per poi tornare e distendersi pigramente, senza mostrare nessun apparente interesse per lei.

All’inizio lei era timorosa con i nuovi venuti, poi come tutti i piccoli, iniziò a prendere confidenza e a giocare con loro. I loro giochi erano strani, e lei a volte non capiva cosa volessero. Ad un certo punto il loro atteggiamento cambiò ed invece di giocare la presero e la sollevarono da terra fino alla loro stranissima testa. Lei ne fu terrorizzata, era ad un’altezza pari almeno a 10 volte la sua stessa altezza. Temette la volessero mangiare. Cercò di divincolarsi ed urlare, ma senza nessun risultato. La portarono con loro, dentro ad una specia di enorme scatola luccicante, che era lì vicino, e che dovevano aver portato loro. Lei si ricordava bene di non averla mai vista lì. La scatola sembrava riflettere la luce del sole in modo che lei non aveva mai visto. Aveva dei buchi che permettevano di vedere qualcosa dell’interno, ricoperti però da qualcosa che lei non riusciva a capire. La scatola aveva un colore grigio che non aveva mai visto, ed una serie di colori strani, strisce nere, delle strutture rotonde sulle quali si appoggiava che si ripetevano simmetriche su entrambi i lati. Il suo terrore aumentò incontrollabile, cosa volevano farle? Dove volevano portarla? La misero dentro questa scatola, e vi entrarono anche loro. Li vide armeggiare con delle apparecchiature, e la scatola sobbalzò e partì. Man mano inizio ad andare ad una grandissima velocità. Vide scorrere il panorama, prima familiare e poi man mano più alieno e sconosciuto. La sua vita non sarebbe più stata la stessa. 
Adesso la sua vita scorreva in modo abbastanza regolare. Si era fatta un idea di cosa questi alieni volessero da lei. Si era resa conto che per loro lei era una specie di animale da mungere, di cui sfruttare le secrezioni corporee, per qualche loro strano bisogno, che lei non riusciva a capire. Aveva capito abbastanza presto che lei non era la sola in quello stranissimo mondo, ma che tanti altri come lei erano stati rapiti. Gli altri, che incontrava sempre con piacere, per giocare o scambiare impressioni e sensazioni, sembravano essere convinti della genuina amicizia di quegli stranissimi esseri. Per la verità, lei stessa era dubbiosa. In qualche modo loro sembravano affezionati a lei, e facevano di tutto per dimostrarlo. Però, ogni tanto, vedeva le occhiate di paura ed odio di qualcuno di loro verso di lei, e questo la faceva tornare alla realtà. Lei non apparteneva a quel posto.

Quando arrivò nella stranissima abitazione degli alieni, era terrorizzata. La loro casa era formata da un susseguirsi di cubi grandissimi, alti circa il doppio di loro. Tra un cubo ed un altro vi erano delle aperture che rimanevano aperte o chiuse secondo i comandi e desideri degli alieni. Nonostante fossero abbastanza gentili, era chiaro che lei non era libera di andare dove volesse, e che veniva controllata e tenuta dentro questi cubi, insieme a loro. Non la facevano mai uscire da sola, ma la legavano a loro stessi, per evitare che lei potesse spostarsi liberamente al di fuori dei cubi. Anche all’interno di questi cubi, c’erano delle zone dove lei non poteva andare.

I primi mesi furono molto difficili. Ogni tanto la portavano in un area dove eseguivano delle procedure ai rapiti. La prima volta che andò vide l’aria terrorizzata di chi ne usciva e ne fu contagiata. Appena entrata nella stanza dove effettuavano le procedure, vide un alieno con dei drappi addosso diversi da quelli degli alieni che la tenevano con loro. Aveva un aria amichevole, ma sospettò subito che c’era qualcosa da temere. Dopo aver emesso molti incomprensibili versi da quella stranissima bocca, improvvisamente le infilò un ago sottopelle ed inizio a fare delle manovre. Urlò il suo dolore, ma gli alieni continuarono a guardare imperturbabili.

All’inizio fu molto difficile per lei muoversi in quegli strani ambienti dove questi alieni vivevano. Il pavimento era di una sostanza di cui lei non aveva nessuna esperienza, era impossibile correre, sembrava di essere sul ghiaccio. Per correre, ma a volte anche per camminare, bisognava fare molta attenzione a non scivolare. Piano piano riuscì ad abituarsi.

Quello che le faceva più paura era però la ragione stessa, ne era assolutamente convinta, per cui lei fu rapita. Dopo poche ore dal suo arrivo, con imbarazzo si rese conto che doveva andare in bagno. Non trovando nulla che assomigliasse ad un posto dove, insomma… , si potessero fare quelle cose, cercò un posto appartato. Accaddero due cose strane: la prima fu che non appena se ne accorsero, le diedero un colpo con un lungo attrezzo bianco, ripiegato, che aveva delle macchioline nere, dritto in volto, e le urlarono contro con quel loro grottesco modo di esprimersi. La seconda cosa fu che presero le sue cose, insomma… le sue deiezioni, e le riposero via. Inizialmente non diede peso a questa seconda cosa, ma poi iniziò a porvi più attenzione.

Col tempo capì che loro volevano che lei facesse i propri bisogni in dei posti specifici. Quando lei lo faceva, vedeva che loro mostravano ampiamente la loro soddisfazione, con i loro modi di fare strani, finché lei non si rassegnò ad assecondarli in questo. Si accorse anche che loro raccoglievano religiosamente tutte le deiezioni per poi riporle via. All’inizio immaginò fosse una stranezza del gruppo di alieni che l’avevano rapito, ma presto si accorse che tutti gli alieni facevano la stessa cosa con tutti i rapiti.

Quando si rese conto di questo, cercò di mandare a monte i loro piani, sperando di essere portata indietro, dalla madre e dai fratelli. Iniziò a trattenere, ma chiaramente questa non era una strategia possibile nel lungo termine. Poi sperimentò a farla nei posti sbagliati, quando loro non erano presenti.

Capì di aver colto nel segno, quando si rese conto che questo li innervosiva molto, era come se le deiezioni perdessero di valore. Comunque le riponevano via, ma con ovvio nervosismo. Ripresero a colpirla con l’attrezzo oblungo ripiegato. Questo attrezzo era stranissimo. A volte lo usavano per punirla ed in altri momenti utilizzavano l’attrezzo completamente dispegato ed aperto e potevano passare ore a guardarlo con interesse. Alla fine, quando si rese conto che non l’avrebbero riportata indietro, smise la protesta, con ovvia soddisfazione degli alieni.

Dopo diversi mesi, iniziò quasi ad affezionarsi ai quei stranissimi esseri. Tutto sommato, si prendevano buona cura di lei, e ogni tanto le portavano quei buonissimi ossi di prosciutto che lei addentava con grandissimo piacere.

sabato 11 marzo 2017

Piccola antologia di Farello

Quella settimana gli alberghi a Manhattan erano accessibili. Avevo pernottato all’Hilton Manhattan East per 149 dollari a notte. In altri periodi a quel prezzo non avrei neanche preso i loculi che sono così in voga tra la gioventù urbana, i millennials (si dice così?). Tempo fa li avevo provati: il bagno nel mezzo della stanza di 6 metri quadri ad andar bene, separato da una vetrata. I bisogni grandi mi davano una sensazione di essere alla mercé di tutti, l’intimità violata.

Pensai che ormai non ci facevo neanche più caso. Da quando avevo iniziato il mio calvario, la mia pudicizia era stata gettata alle ortiche, la mia intimità sotto gli occhi di schiere di infermieri e dottori, in almeno due continenti. Il mio non era un fiore in bocca, ma un bulldog nello stomaco. Come per il povero Zanna Bianca di Jack London che aveva avuto il suo collo stretto tra le fauci del bulldog, non era possibile sfuggire a quella morsa,  inesorabile come il  Fato. Ci avevo provato. Dall’Istituto Tumori di Bari, al Centro di Riferimento Oncologico di Aviano, al Gustave Roussy di Parigi fino al Memorial Sloan-Kettering Cancer Center di New York City. Un giro sulle montagne russe da una parte all’altra del laghetto, come dicono gli anglosassoni, riferendosi all’Atlantico. Dalla rassegnazione, alla speranza per poi tornare alla rassegnazione. Altro giro, altra corsa.

Il linfoma non-Hodgkin è un tumore che prende origine nel sistema linfatico, ovvero nelle cellule e nei tessuti che hanno il compito di difendere l'organismo dagli agenti esterni e dalle malattie. Per il linfoma non-Hodgkin si utilizza un sistema di classificazione che distingue quattro stadi di malattia indicati con i numeri romani I, II, III e IV. Io ero al III all’inizio. Volevo tanto tornare indietro a II, ma il tempo ed i bulldog seguono una sola direzione.

Il primo dottore era un chirurgo e mi ha operato. Il secondo dottore era un oncologo, e mi ha detto che il primo dottore non capiva nulla. Neanche il secondo dottore è riuscito a curarmi. Il terzo dottore mi ha detto che il primo non capiva nulla. Neanche il secondo. Neanche lui è riuscito a curarmi. Il quarto dottore parlava francese. Meno male. Non sono riuscito a raccontargli dei primi tre, e mi sono risparmiato la sua opinione su di loro. Neanche il francese è riuscito a curarmi. Il quinto parlava inglese. Il bulldog non parla nessuna di queste lingue, perché neanche l’americano è riuscito a curarmi. Il bulldog è resistente, né veleni né radiazioni né cellule staminali gli hanno fatto mollare la morsa, sempre più vicina alla mia giugulare.

Avevo il volo per tornare a casa alle dieci e venti di sera, da JFK. Avevo lasciato l’albergo verso le tre e mezza. Conoscevo i ritmi di NYC, ci ero stato molte volte per lavoro. Era venerdì, se avessi aspettato ancora, il traffico mi avrebbe costretto ad un calvario di almeno due o tre ore. Meglio partire prima ed aspettare nel business lounge dell’Alitalia.

Ormai ero al di là della rassegnazione. Avevo la serenità di chi non aveva più nulla da provare. Nessun tentativo era più possibile. Ero arrivato. Non c’era più nulla dentro, guardavo fuori con un distacco che non avevo mai provato. Guardavo la skyline di New York dal taxi che mi portava all’aeroporto come se fosse un film. Il tassista era uno di quelli che amava parlare. Erano anni che non ne incontravo più a NYC. Mi ha raccontato la sua vita, profugo da Oukbar, non ho capito bene se da Tankshabad o da un'altra città, fiero di essere negli Stati Uniti, per lui terra della speranza. Mentre ascoltavo con un orecchio il suo denso accento orientale, mi sembrava bellissimo. Mi riportava a quando, molti anni prima, andavo ad Oukbar per lavoro. Altro che gli Stati Uniti, altro che New York, avrei voluto tornarci. Vi ero stato all’inizio della mia carriera, in cui ogni viaggio era un’avventura esotica. Mi ero innamorato di Oukbar, vi ero stato un anno, e l’avrei portata sempre nel cuore. La vita era semplice, eravamo una comunità di stranieri, che si frequentava e viveva insieme, molti di noi giovani. Vivevamo quel senso di privilegio di essere occidentali in un paese del terzo mondo senza vergogna, come se ci spettasse di diritto. Continuai ad ascoltare il tassista con piacere, mentre osservavo la distesa di edifici, via via più bassi, immaginando la vita di coloro che vi abitavano.

Arrivato all’aeroporto, osservai la finta cortesia degli addetti al check in e provai a intuire quali fossero i loro veri sentimenti nei confronti dei viaggiatori, ed in particolare di una coppia di fastidiosi passeggeri di business class, lui asciutto, alto ma curvo e lei corpulenta e molto truccata in viso, che probabilmente pensavano che il sovrapprezzo pagato per assicurarsi il biglietto in classe business li avesse fatti diventare padroni dell’aeroporto.

Lasciato il bagaglio osservai la proverbiale scortesia degli agenti del controllo passaporti di NYC. C’era una povera signora che non capiva l’inglese. L’agente doveva aver pensato che declamare le istruzioni a voce via via più alta le rendesse più comprensibili alla povera signora. Mentre andai per avvicinarmi ad aiutare, un anima pia nelle vicinanze si fece avanti per tradurre per la signora.
Non volevo fare shopping. Per chi? Perché? Andai nel business lounge, premio ambito dei frequent travellers che hanno abbastanza miglia accumulate e fanno parte dei club esclusivi. Mi sedetti, ignorando le libagioni gratuite e finalmente riflettei su cosa mi aspettava. Non ci girai molto attorno. Mi aspettavano poche settimane di vita, forse. Ogni momento poteva essere quello buono. Non avevo capito bene i dettagli di cosa poteva succedere. Probabilmente il fegato, la cui funzionalità era minima o nulla avrebbe ceduto, avvelenando il sangue, mi era sembrato di capire. Oppure il cuore, già ballerino di suo, visto il quadro compromesso, avrebbe potuto caritatevolmente cedere, risparmiandomi maggiori sofferenze. Il sistema audio del lounge spandeva musica di Thelonious Monk, opportunamente allegra. Riconobbi la versione di Miles Davis di Straight No Chaser, probabilmente registrata al Newport. La tromba di Miles era inconfondibile, pensai automaticamente.

Bene, organizziamoci: che si fa? Sorridendo, pensai che avevo solo da pensare all’epitaffio sulla mia lapide. Presi carta e penna e provai a comporlo nel lounge.

Un cantastorie
Ci credereste che ero puro?
Divenni ingegnere per contentare mio padre.
Divenni capo di alcuni e lacché di altri.
Ma non contento,
volevo diventare capo di qualcuno di più
e lacché di qualcuno di meno.
Lavorando, negandomi una famiglia,
partendo per terre lontane, continuai la mia corsa.
Mi fermai, morso da un cane.
Ci credereste che alla fine ero puro?
Ero più puro dei selvaggi di Oukbar e dei fantocci di New York,
più puro dei dottori di Parigi e dei macellai delle Murge.
Ero trasparente come il vetro che sfregavo con carta di giornale ed alcool, da ragazzo, garzone di bottega.
Non c’era più nulla di me, svuotato da un mastino.
Ci credereste che ero felice?
Ero felice della felicità di chi non pensa più a sé,
a cui non serve più niente,
la felicità dell’ottico che inventa i mondi
sui quali guardare.


Il testo uscì fuori lentamente dapprima, ma senza intoppi, e mi venne da piangere, quietamente, appena lo terminai. Un pianto di gratitudine. Era iniziato l’imbarco, senza farmi vedere mi asciugai le lacrime ed andai. Di solito ero tra i primi, felice di passare avanti, forte della mia carta alitalia Freccia Alata e del mio status di frequent traveler. Questa, invece, volta aspettai in fila ed entrai quasi per ultimo. Non c’era più fretta, non c’era più orgoglio. Entrai in aereo, e mi accolse una canzone italiana di tanti anni fa, di Gerardina Trovato.  Avevo amato quella canzone, mi era sempre sembrata un idealizzazione della mia vita, come mi piaceva immaginarla. In realtà, mi rendevo adesso conto, non avevo mai avuto i timori e le difficoltà nel lasciare la mia città da ragazzo di cui cantava l’autrice. 
Nelle prime file di posti, in aereo, vidi un volto conosciuto, era stato il sindaco di una importante città. Non se ne sentiva più parlare molto. Viaggiava con la moglie, e si guardavano spesso, sorridendo. Mi sembrò naturale pensare un epitaffio anche per lui e, dopo essermi sistemato al mio posto, continuai a scrivere.

Un sindaco
Fui parolaio e feci promesse,
alcune le mantenni, altre di meno;
molte furono avventate, per sviare la gente di poca memoria;
altre furono studiate, gettate lì per un pacco di voti;
alcune furono sincere, nel momento in cui furono fatte,
e dimenticate in poche settimane.
La più importante fu avventata, studiata e sincera
e convinse mia moglie,
l’unica che mi fu sempre vicina
dopo ogni vittoria ed ogni sconfitta,
le prime sempre meno frequenti
le seconde sempre più definitive.
Fu forse l’unica promessa che mantenni
e ne fui sempre felice
.

Non ero convinto di quello che avevo scritto. Forse sarebbe stato meglio insistere di più sul senso comune del politico disonesto con parole ed azioni disallineate. Io ero uno di quelli che non aspettava altro che l’inizio di un argomento sulla politica per sputare veleno su tutti gli onorevoli, senatori e similari d’Italia. Questa mia inclinazione era naturalmente aumentata con il peggiorare del mio male. Ma ormai era tutto svanito. Mi piacque quel continuo guardarsi con viso sereno tra il Sindaco e la moglie, li immaginai felici e non modificai il testo.

Mi sistemai meglio nel posto a me assegnato, e feci partire il sistema di intrattenimento. Istintivamente, cercai playlist di musica ricercata: classica o almeno jazz, temendo che il vicino potesse giudicare i miei gusti musicali. Quando me ne resi conto, sorrisi. Cosa importava ormai? In realtà cosa ha mai importato il giudizio dei miei vicini? Scelsi invece l’opzione di riprodurre brani musicali casuali. Il primo brano era una delicatissima e triste ballad di Malika Ayane. Ascoltandola mi sembrava di sentire sulla pelle la foschia, negli occhi il bruno rossiccio delle foglie, nel naso il profumo della terra umida, delle giornate d’autunno.

Per non fare pesare il lungo viaggio, avrebbero servito la cena. Gli assistenti di volo iniziarono i preparativi. Una gentilissima hostess si occupò di me, chiedendomi cosa avrei preferito tra le scelte disponibili. Aveva dei modi gentilissimi, ed un sorriso bellissimo, ma degli occhi inequivocabilmente tristi. Non la tristezza di chi aspetta la gioia, ma una tristezza senza appello e senza speranza.

Una hostess
In me c’erano due mondi, scollegati tra loro.
Ero abituata a partire col gelo ed arrivare in estate,
tra Stoccolma e Rio, tra Londra ed Harare,
ma tra i due aeroporti c’era un legame
il legame ero io, e l’aereo che portava la gente
molti felici di andare in vacanza,
di ritrovare amici, parenti, amore.
Alcuni tristi, che lasciavano famiglie, forse rancore.
Ero abituata a partire dalla ricchezza ed arrivare alla povertà,
da Parigi a Luanda, da Bruxelles a Kinshasa.
Ma ogni viaggio portava un po’ di ricchezza,
anche se non sempre comprensione.
Il mondo dentro di me era ormai
gelo e povertà.
Nessun aereo poteva portarmi la primavera,
nessuna hostess portarmi ricchezza.
Per molti non era neanche una malattia,
la morte dentro.
Sorridi, dicevano, ma io sorridevo,
era questo il mio lavoro.
Intanto dentro ero morta
come foglie d’autunno.


Seguii la hostess con lo sguardo tutte le volte cha passava. Le augurai, con tutto il mio cuore, felicità. Dopo vari brani cui non feci attenzione, la playlist mi propose Venditti. Quante volte dovevo aver cantato quella canzone. Prima degli esami di maturità, prima di ogni maledetto e sudato esame all’università. Ad ogni falò di quand’ero giovane. Un rito di passaggio, che, a passaggio avvenuto scomparse senza lasciare traccia. Credo di non averla più sentita, o più probabilmente di non averla più ascoltata, da allora. Lo so, probabilmente è banale dirlo, ma mi tornarono in mente gli amici, gli odori e il tempo che non passa mai, di quei giorni.

Davanti a me c’era un passeggero molto alto, con un aria da personaggio dei film di Verdone. Quello che una volta era il marito precisissimo che pianificava tutto al millimetro, un altra il medico novello sposo che andava in viaggio di nozze ed un'altra ancora il professore universitario vedovo che opprimeva il figlio. Ecco, lo immaginai professore universitario. Ero certo di non sbagliarmi di molto. Il colore dei capelli, il taglio della barba, gli occhiali spessi con montatura senza tempo in tartaruga: tutto di lui sembrava confermarlo. Mi sporsi in avanti, con curiosità. Leggeva un libro in inglese che mi pareva trattare ipotesi di modulazioni alternative per ottimizzare la codifica di dati su bande estreme dello spettro elettromagnetico, che sapevo non correntemente utilizzate a scopo di trasmissione dati. L’ingegnere in me subito pensò che probabilmente si trattava di applicazioni molto specifiche difficilmente generalizzabili, ma il treno di pensieri si arrestò subito, come il mio interesse professionale, ormai pari a zero. La lettura dello spilungone mi sorprese, lo avevo immaginato più umanista che ingegnere. Sempre professore restava, nella mia immaginazione, molto simile a quell’esemplare odioso che mi fece quasi rinunciare agli studi.

Un professore
Più che i fulmini del cielo e la violenza delle tempeste,
siano la pazienza delle gocce di pioggia ed il soffio del vento,
a scolorire la mia lapide e cancellarmi la storia.
Che gli elementi marchino punti contro di me,
che non posso più rispondere.
In vita ero Professore,
depositario di conoscenza,
giudice in terra dei colti
e incurante nemesi per gli stolti.
Pensavo di essere imparziale,
troppo alto di statura fisica e morale
per soffrire di debolezze umane,
ed ero invece cieco, abbagliato
dalla mia grande conoscenza dell’etere
e poca saggezza di cose umane.
Come disse uno studente,
troppe volte bocciato, cui rovinai la vita:
il mio cuore era troppo distante
dal mio cervello e dalla mia mente.
Premiavo simili a me, pronti a compiacermi,
con voti generosi e lodi accademiche
e bocciavo studenti per un movimento,
uno sguardo, un sussurro
visto o solo immaginato.
Vento e pioggia, pulite la mia lapide,
ché coloro cui rovinai la giovinezza
non possano sputare sulla mia tomba.


Iniziò un brano familiare, che certamente conoscevo. Che avevo ascoltato moltissimi anni fa, ma di cui avevo dimenticato il titolo e l’autore. Era certamente un brano che avevo ascoltato spesso in gioventù. Appena Claudio Baglioni iniziò a cantare mi tornò tutto in mente. Mi ricordai di quando io e Stefania la ascoltavamo – forse trenta, trentacinque anni fa? - ancora fidanzati. Allora eravamo il ragazzo e la ragazza, che immaginavano di diventare l’uomo e la donna, ancora innamorati. Ascoltando questa canzone, immaginavamo i nostri figli che ancora non erano, e ancora oltre i nostri nipoti. Ci immaginavamo insieme per sempre, ed insieme ad una gioiosa tribù di figli e nipoti. Passavamo le ore a guardarci e a parlare. Il ricordo era doloroso. Faticai per trattenere un singhiozzare incontrollato. Mi girai dall’altra parte per non far vedere le lacrime a chi passava nel corridoio. Ero solo, a combattere con il mastino. Solo nella sconfitta, ormai una questione di poco tempo.

Una ragazza (*)
La ragazza ha un sorriso profumato
e un cuore di limone e fragola.
Si volta con aria distratta
e si aggiusta con cura i capelli ed i pensieri.
Sembra scendere dal cielo
e sulle guance accese le si leggono domande.
La ragazza nell'acqua calma dei suoi occhi scuri
di un lago in autunno e tra i suoi stretti polsi
trema già un destino sconosciuto.
Ha sguardi lunghi che immaginano il futuro
e due ali piccole che imparano a volare...
La ragazza si volta e il vestito leggero
si appoggia sulle gambe e il seno.
Per la ragazza il film si ferma di colpo ,
sotto una macchina guidata da un mostro
non cattivo, distratto.
Il ragazzo ha pianto tutte le sue lacrime,
e ha stordito tutti i suoi sensi.
Per il ragazzo il film si ferma un po’ dopo,
tra i denti di un mostro non cattivo, incurante.


Alla fine fu il cuore, meglio così. Mi trovò la hostess triste, che non riuscendo a svegliarmi, cacciò un piccolo urlo.

(*) versi liberamente ispirati al testo di un brano di Claudio Baglioni

domenica 15 gennaio 2017

Una nevicata così non si era vista

Il treno ondeggiava e sobbalzava. Una nevicata così non si era vista da almeno vent’anni. Ero di ritorno da Ginevra, dopo aver fatto il trecentocinquantaquattresimo colloquio di lavoro. Forse trecentociquantaquattro no, ma sicuramente più di trenta li avevo fatti. Mi ero svegliato alle quattro di mattina per prendere il volo da Ginevra delle sette. Il check-in on line per i voli da Ginevra non funzionava, come avevo imparato a mie spese, per cui mi ero armato di pazienza e avevo messo la sveglia a quell’ora in cui i cristiani (ma anche i musulmani, ebrei, buddisti, induisti, zoroastriani e baha’i) dovrebbero dormire. Sono quindi andato in aeroporto due ore prima, per evitare complicazioni. Quando volavo più spesso per lavoro avevo avuto qualche disavventura a causa delle lunghe file che si creano talvolta nei fine settimana. Volevo evitare ogni problema, e mi sono presentato con un lauto margine di novanta minuti. Il gate era l’A6. Dopo i controlli di sicurezza mi sono avviato. Naturalmente non era un gate di quelli con il finger, quel connettore mobile chiuso che connette direttamente il terminale con l’aeromobile. Invece, sarebbe stato un imbarco con l’utilizzo dell’autobus. Non un buon inizio, con quella temperature gelida di inizio Gennaio. Non sopporto la perdita di tempo e il disagio dell’imbarco con l’autobus. E pazienza…
Fortunatamente il volo per Roma è avvenuto senza grossi problemi, e in orario. Ho pensato fosse di buon auspicio, visto che il tempo disponibile per la connessione per Bari era risicato. Arrivato a Roma sono andato rapidamente al gate per prendere il volo per Bari. Appena arrivato, ho visto che però aveva un ritardo previsto di un ora. Ho pensato che sarebbe stato meglio, ci sarebbe stato più tempo per caricare il bagaglio in stiva. Sistematicamente, durante tutti i miei viaggi precendenti, quando c’era un tempo di connessione a Roma striminizito, il risultato è stato sempre quello di non ritrovare il bagaglio a destinazione. Non un grosso problema quando torni, come in questo caso, ma un enorme problema all’andata. In una circostanza, a New York per lavoro, il bagaglio mi arrivò quattro giorni dopo. Dovetti comprarmi un intero guardaroba. Non un grosso problema, in quel periodo.
Passata l’ora, il tabellone delle partenze si è aggiornato aggiungendo un'altra ora di ritardo. Ho chiesto spiagazioni alla signorina, che con distacco, mi ha detto che c’era una eccezionale nevicata a Bari, e gli aerei non stavano atterando. In effetti Marina me lo aveva detto che c’era il rischio di neve a Bari. Non avevo dato peso alla cosa. A quel punto ho chiamato Marina, per aggiornarla sul mio vaggio e non farla stare in pensiero, e mi ha confermato che c’era una nevicata in corso che non si era vista da moltissimi anni.  Ho chiuso la telefonata, e sono tornato a guardare il tabellone. Volo cancellato. E adesso?
Mi sono messo in fila per parlare con la signorina, aspettando il mio turno. Dopo aver parlato con una decina di passeggeri con vari gradi di incavolatura, dal giallo paglierino (pochi) al rosso vivo (quasi tutti), è toccato a me. Io di natura sono un giallo paglierino, ma lei, invece di essermene grata, si è mostrata di un rosso vivo. Le ho chiesto gentilmente se potevo essere riprotetto in un volo successivo, e ho sperato che i passageri di prima non avessero occupato tutti i posti disponibili. Lei mi ha detto che la situazione meteo nell’aeroporto di arrivo era in peggioramento, che i voli successivi non stavano accettando nuovi passeggeri, essendo a rischio di cancellazione anch’essi, e che, comunque, il mio bagaglio era stato sbarcato e avrei dovuto ritirarlo a Roma. Avrei però potuto chiedere il rimborso del resto del biglietto. Grazie. Ero stato scaricato dall’Alitalia. E pazienza…
Io ho sempre cercato di volare Alitalia, per un orgoglio italiano, ma a volte veramente ti fanno passare la voglia. Non era quella la prima volta e pensai che non sarebbe stata l’ultima. Ho pensato a quando un viaggio di 12 ore da Oukbar a Bari è durato invece 40 ore, e di come puzzavo all’arrivo a casa. Come sempre avrei comunque continuato a volare Alitalia. Poi mi sono ricordato e ho riformulato la frase: avrei comunque continuato a volare Alitalia se fossi riuscito a trovare un lavoro che mi avrebbe permesso di volare, per lavoro o per svago.
Va bene. Non era la prima volta che mi sono trovato in situazioni simili e sapevo bene come fare. Ho subito preso l’iPhone e ho cercato di prenotare al volo un treno frecciargento per Bari. Ce n’erano. Ho controllato gli orari, prendendo il primo disponibile, sarei arrivato alle sette di sera, dovevo sbrigarmi, ma potevo farcela. Ho tentennato prima di acquistare, un tempo non l’avrei fatto. E se avessi avuto problemi nel trovare la valigia? Erano ottantacinque euro di biglietto. Se non avessi trovato la valigia avrei rischiato di perdere il treno, ed i soldi del biglietto. Di questi tempi dovevo stare attento a come spendere i soldi. Ho deciso di aspettare e di ritrovare la valigia prima.
Sono uscito dalla zona di sicurezza dell’aeroporto per entrare nella zona ritiro bagagli, i tabelloni indicavano i nastri di ritiro bagagli per i vari aerei in arrivo, ma non per i bagagli sbarcati da aerei in partenza. Altra consultazione con il gentile personale di terra. Questa volta non lo intendevo in senso ironico, la signorina è stata gentile e mi ha dato le giuste indicazioni. Ho recuperato la valigia. Meno male, avevo il mio abito migliore lì dentro, comprato quando potevo spendere. Ho rifatto rapidamente la ricerca per il biglietto e ho provato ad acquistarlo online. Posti esauriti. Eravamo in tanti a voler tornare a Bari. E pazienza…
Ho cercato soluzioni successive e fortunatamente c’era un treno più tardi, che partiva alle diciotto da Roma termini e arrivava alle dieci di sera. Ho chiamato Marina per aggiornarla della situazione. Lei mi ha riferito che la nevicata continuava vigorosa, ed i bambini si stavano divertendo da matti in giardino.
Altro problema. Avevo lasciato l’albergo alle cinque di mattina, dopo aver compiuto tutti i riti mattinieri, sia quelli che è possibile includere in un racconto, sia quelli che pare sia più elegante evitare di menzionare, nonostante certi scrittori non si facciano scrupoli. Erano le dodici ed io ero praticamente fuori dall’aeroporto. Avevo bisogno di una toilette. Ho pensato che avrei potuto cercare un ristorante economico vicino Roma termini, dovevo pur mangiare, ed avrei usato la toilette. In altri tempi avrei usato la toilette della business lounge dell’Alitalia.
Sono andato per prendere il treno dall’aeroporto di Fiumicino per Roma Termini. Ai tornelli per entrare bisognava mostrare il codice QR del biglietto. L’ho ritrovato nel mio cellulare e l’ho mostrato. Non viene accettato. Ho riprovato più volte, ma niente. Sono andato a chiedere chiarimenti dall’addetto alla biglietteria: stavo sbagliando qualcosa? Ha controllato il mio biglietto e mi ha fatto notare che era per le diciassette. Non avrei potuto usare quel biglietto alle dodici e trenta. Avrei dovuto aspettare almento tre ore. Con un sorriso ironico mi ha fatto notare che noi (noi chi?) abbiamo sempre troppa fretta e quando compriamo online non facciamo caso agli orari. Tutta colpa dei tempi moderni, troppa fretta ecc… Non era il momento di entrare in quella discussione, tantomento con lui. L’ho interrotto e gli ho chiesto se potevo ottenere il rimborso e comprare un nuovo biglietto con l’orario corretto. No, non potevo, sosteneva. Il biglietto online, pare sia automaticamente vidimato, e quindi non rimborsabile.
Dovevo andare in bagno. Credo di non averlo guardato in modo amichevole, e sono andato a comprare un nuovo biglietto. Altri quattordici euro. E pazienza…
Ho preso il treno per Roma termini, dove sono arrivato dopo mezz’oretta. Ho cercato un ristorante a buon prezzo. Ne ho trovati tanti che non avevano la toilette, che facevano panini, pizze a taglio, street food insomma. L’urgenza iniziava a farsi sentire. Ho cercato ancora e finalmente trovo questo ristorante, non proprio economicissimo, ma insomma, dovevo andare. Sono andato, ho fatto quello che dovevo fare, mangiare ed altro, e sono uscito. Mi sono un pò sentito in colpa perché non avevo lasciato la mancia. Avrei dovuto, visto che avevo abbondantemente approfittato dell’ospitalità del locale.
Ho girato un pò per Roma a piedi portandomi il trolley dietro. Dalla stazione termini ho preso le vie che portano verso il Quirinale. Ho fatto qualche foto alle splendide fontane nelle vie vicine e le ho mandate al gruppo famiglia di Whatsapp. La fontana di fronte all’ingresso del Quirinale era gelata, inusuale per Roma, foto ed invio. Arrivo poi a Piazza Venezia, selfie con altare della patria sullo sfondo ed invio. Ho pensato di girare un po’ i negozi di via del Corso, ma dopo aver visto il primo ho cambiato subito idea. Meglio di no. Ho girato verso il Pantheon. Selfie ed invio. Sono arrivato a piazza Navona. Mi sono ricordato della rivalità tra il Bernini ed il Borromini. Ho fatto una foto alla fontana dei fiumi del Bernini, ed in particolare alla figura che rappresenta il rio della Plata, con il suo braccio alzato quasi a proteggersi dalla imminente caduta della chiesa antistante, costruita, almeno in parte, dal Borromini. Ho fotografato anche sant’Agnese, sopra la colonna di destra della chiesa del Borromini, con la mano al petto, quasi a rassicurare i quattro giganti della fontana sulla solidità dell’edificio. Ho aggiunto due righe per spiegare la curiosità ai bambini ed ho inviato le foto. Ho continuato verso Castel Sant’Angelo e Piazza San Pietro, mentre ascoltavo la bellissima sinfonia n.3 di Gorecki, che avevo riscoperto da poco. Sono arrivato a Piazza San Pietro con la magnifica voce di soprano che cantava le melodie del terzo movimento e mi sono reso conto che era ora di tornare verso la stazione.
Il treno per Bari non era in ritardo. Meno male. Mi sono preparato a salire sul treno, che sembrava assaltato dai mohicani. Probabilmente tutte le persone cui avevano cancellato i voli per Bari (e probabilmente anche per Brindisi) si accalcavano per prendere questo treno. Non prometteva bene, sarebbe stato un viaggio affollato. Sono salito sul treno, che è partito subito dopo, dapprima con un andatura lento, e poi via via ondeggiando e sobbalzando lievemente. Una voce meccanica ha annunciato che a causa delle critiche condizioni meteo il treno potrebbe subire ritardi. Pare ci sia una bufera di neve sui passi appenninici, dove la temperatura è scesa addirittura sotto i meno dieci gradi. Mi sono detto che non avrebbe potuto fare più scuro di mezzanotte, come dicono i siciliani, e mi sono addormentato quasi subito, comprensibilmente. Era dalle quattro di mattina che ero in movimento.
Mi sveglio ascoltando l’ennesima ripetizione della playlist con le gymnopedie e le gnossienne di Satie. L’iphone è scarico, dov’è il caricatore? Il treno sembra rallentare, credo siamo tra Benevento e Foggia. Il treno si ferma. Nevica abbondantemente, ma lievemente. Non quella neve violenta spinta dal vento, ma una neve che scende retta, copiosa, lieve. Pare ci sia un problema nella linea, qualcuno scende. Scendo anch’io, chissà perché senza il cappotto.
La musica di Satie è quel tipo di musica che i registi di mestiere mettono, silenziando tutti gli altri rumori e rallentando i movimenti, quando arriva la scena dell’eroe che corre verso il finale, dove morirà, dove non ha scelta. Anzi, dove avrebbe scelta, ma è un eroe, e la scelta è quindi obbligata. Dove farà l’estremo sacrificio per salvare il mondo, o la donna, o la famiglia. Mentre penso questo, mi accorgo che il treno lentamente riparte. Con gli auricolari nelle orecchie non avevo sentito la partenza, e con il buio, la neve, non hanno visto che sono rimasto fuori.
Posso fare la mia scelta. Posso ancora farmi vedere e fermare il treno, oppure rimanere in disparte ancora un pò e perdermi nella neve. Non è un suicidio. Sono loro che sono partiti senza di me, non mi hanno visto. L’assicurazione pagherà. I bambini avranno regali di natale anche per tutti gli anni a venire.
Mi siedo sulla neve. Adesso sento freddo. La terza gnossiene di Satie inizia la sua delicatissima melodia. La ascolto con gli occhi chiusi. La melodia finisce insieme alla batteria dell’iPhone. La neve che scende, copiosa, lieve, è bellissima adesso.