venerdì 13 dicembre 2019

Hanno ucciso l'uomo ragno


Da qualche mese avevo iniziato a lavorare ad Oukbar, dopo un lungo e necessario girovagare. La mia traiettoria lavorativa doveva sembrare incomprensibile ad ogni specialista in risorse umane. Difficile trovare un senso nel passare dal fare il contabile in una grande azienda ad essere il responsabile produttivo di una piccola azienda, al supervisore di un magazzino di una piccola sede di un’agenzia specializzata delle Nazioni Unite. Difficile capirne l’intenzione, se si pensa alla carriera come ad un fine, più che un mezzo. Per me era unicamente un mezzo. Un mezzo per navigare la distanza da idiomi noti e consueti a linguaggi lontani ed incomprensibili.

Speravo di poterci rimanere per un po’, ad Oukbar. Non che il posto mi piacesse particolarmente. Considerandolo in modo astratto, mi pareva troppo disordinato e non troppo pulito. Gli odori mi facevano venire in mente le auto vecchie di quando ero bambino, e quell’odore pungente dei vecchi motorini degli anziani che vanno a lavorare in campagna, e più recentemente degli immigrati, anch’essi in cerca di lavoro e fortuna nei campi, motori esalanti gli ultimi respiri, ormai da anni, a causa di proprietari senza valide alternative. Era, a suo modo, un posto affascinante. Ogni nuovo posto aveva una sua colonna sonora all’inizio. Cercavo l’ascolto di musicisti che poi associavo al luogo. Qui, la colonna sonora era l’oud di Dhafer Youssef, nella mia ignoranza che omogeneizzava Tunisi ed Oukbar. La gente di Oukbar era gentile, a giudicare dai modi – ancora, e fortunatamente, non ne capivo le parole ed i pensieri. Però, qui sentivo una serenità interiore che altrove mi era ormai impossibile provare.

Non avevo mai lavorato in Italia, non mi sarebbe stato possibile. Avevo iniziato la mia carriera lavorativa in Germania, attratto dal linguaggio incomprensibile ed irragionevolmente aspro dei tedeschi. All’inizio la Germania era Beethoven, il caldo abbraccio del secondo movimento della settima sinfonia, prima di diventare il chiasso della quinta. Dopo un anno circa, dovetti spostarmi e decisi di andare a vivere in Polonia, ma lì durai un po’ meno, anche se la terza sinfonia di Gòrecki mi resterà sempre nel cuore. Man mano che mi spostavo, andavo più lontano, e resistevo meno. Era un problema di distanza emotiva e mentale. Avevo necessità di non comprendere i miei vicini. Appena iniziavo a capirli, iniziava il caos. Dapprima parole isolate, poi frasi semplici, pensieri semplici e via via più complicati e profondi. Una cacofonia che aumentava di giorno in giorno. Le prime volte, quando facevo le valigie per partire, ero accompagnato dall’equivalente della Bohemian Rhapsody dei Queen che cerca di sopravanzare la Quinta Sinfonia di Beethoven a sua volta in gara con una versione particolarmente tirata di Master of Puppets dei Metallica. I miei pensieri si perdevano in quel putiferio come si perderebbe una interpretazione intimista di De André della Canzone di Marinella. Ogni brano con un suo senso – brillante - se ascoltato in solitudine, irrimediabilmente pervertito dalla contemporaneità. Una sensazione dolorosa emotivamente, ed anche fisicamente spossante. Pensai di suggerirlo alla CIA come tecnica di interrogazione avanzata (“ehnanced interrogation technique”). Col tempo avrei imparato a capire i segni dell’irreversibile discesa nel caos, con anticipo sufficiente a risparmiarmi le fasi più dolorose.  

Solo mia madre era al corrente della mia condizione. Dico “era” perché lei non c’era più da diversi anni, consumata dallo sforzo e dalle preoccupazioni di tirar su un figlio da sola. Non ho mai saputo con certezza chi fosse il mio padre biologico, e ho motivo di pensare che non lo sapesse con certezza neanche mia madre. Di certo lei non gli ha mai dedicato né una parola né un pensiero. Io non le ho mai chiesto niente, né c’è n’era bisogno.

Come tutti bambini, per me la mia condizione era la normalità. Verso i tre anni, iniziai a mostrare disagio a stare in luoghi affollati. Piangevo disperato. In modo naturale, mia madre evitò di frequentarli. Secondo l’otorinolaringoiatra pediatrico dell’ASL soffrivo di iperacusia, che ci spiegò essere  un disturbo del sistema uditivo caratterizzato da un'ipersensibilità ed un'intolleranza ai suoni. Offrì la diagnosi sulla base dei racconti di mia madre, e di qualche parola scambiata con me. Mia madre chiese se fosse possibile fare qualche test, ma il dottore aveva molte persone in attesa – sottintendendo che avessero problemi più seri - e pensò bene di suggerire il nome di colleghi che avrebbero potuto approfondire, inutilmente secondo lui, e a pagamento. Andammo anche da una psicoterapeuta dell’età evolutiva, che aveva una lista d’attesa di sette mesi, che, lei sì, dopo aver atteso i sette mesi con pazienza, mi sottopose a dei test e questionari per offrire alla fine un’ipotesi diagnostica, iniziale e di massima, di agorafobia - paura della folla, con una raccomandazione di approfondire e perfezionare la diagnosi con sedute specifiche, e a pagamento. Iperacusia, agorafobia, pagare per approfondire.

Abitavamo in un complesso di case popolari, del tipo che i giornalisti pigri, nel descrivere eventi di cronaca nera, si compiacciono di chiamare alveari umani. Api, ma senza miele. Solo nelle canzoni di De André dal letame nascono i fiori – e dagli alveari umani, miele. Mia madre si dava da fare per mandare avanti la famiglia, composta unicamente da lei e me. Faceva lavori massacranti, con orari massacranti, spesso molto lontano da casa. Guadagnava poco, e quel poco lo moltiplicava con la fatica. Fatica a lavoro e fatica il poco tempo che stava a casa. Da grande avrei capito che lo faceva per me, e che la sua vita era un inferno perché la mia non dovesse esserlo, almeno non da bambino e non mentre lei era in vita e poteva fare qualcosa per evitarlo.

Il poco tempo che passava a casa lo passava con me. Le nostre passeggiate erano solitarie ed in orari strani. Un po’ perché i suoi orari non davano molte opzioni ed un po’ perché io mostravo di essere più sereno quando non c’era gente in giro. Così uscivamo la sera tardi molto dopo il tramonto, quando la gente per bene era ben sotto le coperte, o la mattina molto presto prima dell’alba a goderci il sorgere del sole, nell’aria ferma del mattino, quando anche il vento rimane immobile per un istante, per non disturbare.

A scuola, già alle materne, ebbi problemi. Piangevo in continuazione. Non il pianto malinconico e triste, cui la maggior parte della gente può resistere per qualche minuto. Ma il pianto disperato di chi soffre fisicamente, cui l’urlare a squarciagola dà una forma di alleviamento per condivisione. Dopo qualche tentativo, mia madre rinunciò alla scuola materna. Dovette riprovare, obbligatoriamente, quando raggiunsi l’età per le elementari. Resistetti pochi minuti, prima di piangere, accusando un fortissimo mal di testa. Dopo diverse settimane di tensione, le peggiori della mia vita, in cui mia madre cercò di forzarmi, finalmente trovò una soluzione: istruzione domiciliare o homeschooling. “E’ consentita dalla costituzione italiana”, ripeteva mia madre a chiunque facesse cenno all’argomento.   Una soluzione certamente gravosa per lei. Oltre al lavoro, mia madre doveva anche istruirmi, o pagare degli insegnanti per venire in casa a tenermi lezione. Col senno di poi, questo evento mi diede la misura dell’amore che provava per me. A casa riuscivo molto meglio, ed ero anche discretamente bravo negli studi, nonostante la precarietà e la saltuaria presenza di insegnanti a pagamento, direttamente proporzionale alle possibilità economiche di mia madre.

Però, le poche volte che dovevamo per forza uscire in mezzo alla gente, sudavo e soffrivo. Imploravo mia madre di tornare a casa, oppure in uno spazio sgombro da persone il prima possibile. Non so se mia madre si rese conto fino in fondo di quale fosse in realtà il mio problema. Per due persone che vivono da sole, è quasi naturale capirsi al volo, leggersi nel pensiero. A maggior ragione ad una madre con il proprio figlio, le parole sono spesso superflue.

Mi resi conto che non ero normale verso i sei anni. Fino ad allora, la mia diversità, e le mie difficoltà, erano chiare agli altri, ma non a me. Un giorno, come spesso succedeva, una vecchia vicina dal volto rugoso ed antipatico, mi vide passare per le scale e pensò per l’ennesima volta male di mia madre, perché mi lasciava sempre solo in casa. Usò il termine “zoccola”, che già sapevo essere un termine offensivo. Non so se ero io diverso quel giorno, cresciuto forse? O forse semplicemente stanco delle ripetute e gratuite offese a mia madre, che era disposta a tutto per il mio bene. Le risposi dicendo che lei era brutta e vecchia e che non doveva offendere mia madre. La vecchia si alzò lentamente, spaventata, disse che ero il diavolo, che ero entrato nella sua mente, e se ne andò più velocemente che poteva biascicando preghiere. Avevo letto i suoi pensieri. Fino ad allora avevo pensato fosse normale leggere i pensieri della gente. Rimasi inebetito a pensare, e piano piano iniziai a collegare tutti i piccoli segnali che avevo già vissuto. Sentii dei brividi dietro la schiena, mentre guardavo la vecchia correre via in modo quasi comico. Fu uno shock. Non ne parlai con nessuno, e cercai di non pensarci, per diversi anni.

Col tempo, provando a saggiare i limiti di questa mia condizione, mi resi conto che riuscivo a leggere i pensieri della gente solo quando erano espressi in parole, in linguaggio. Non riuscivo a leggere le paure, le immagini, o i suoni immaginati nel privato della mente degli altri. Gli stranieri erano come dei libri chiusi per me. Prima di comprendere la mia condizione, pensavo che la parola “straniero” fosse un sinonimo di “silenzioso”.  

Percorrevo la via principale di Oukbar, ascoltavo una playlist degli anni ’80, quando sentii un uomo dall’aspetto decisamente europeo, con un grosso zaino in spalla, pensare “adesso gli faccio vedere io a questi straccioni”. Mi girai verso di lui, e vidi che stava fermo in piedi, guardando verso la strada del mercato, affollata di gente a quell’ora. Sentii che ripassava a mente quello che aveva in mente di fare.

Avvio la telecamera sul cappello – controllo che sia partito il webcast – metto il cappello - prendo l’AK47 - lo tengo in alto bene in vista davanti alla telecamera – sparo una raffica verso l’alto – si girano tutti verso di me – inizio a sparare – ogni due raffiche mi fermo e guardo intorno per riprendere una panoramica – quando la semiautomatica è scarica prendo l’altro AK47 - riprendo a sparare – ogni due raffiche panoramica – quando si scarica butto l’arma a terra e alzo le mani – quando sono vicini – schiaccio il bottone – bum… e chi si scorda più di me

Suonava come una stanca cantilena di una vecchia poesia imparata a memoria. Una cadenza così infantile che dapprima non ne colsi il senso. Ricominciò daccapo, stavolta sembrava più nervoso e ne ascoltai le parole con più attenzione. Sembrava un innocuo bambinone, visto di spalle, che ripassava a mente un lento e strano ballo di gruppo. Mentre cantilenava a mente, vedevo che con il corpo accennava i movimenti. Portò la mano al petto e finì nuovamente la cantilena – bum… Quasi a rallentatore, sentii un brivido gelido attraversare la spina dorsale, dal basso verso l’alto, fino a far rizzare i capelli alla base della testa. Il mio corpo aveva capito qualche secondo prima della mia mente. Mi volsi a destra, la gente camminava, parlava, un cane disteso. Nessuno aveva capito la situazione. Mi volsi a sinistra, gente che rideva sguaiata, altra gente in un capannello, tutti ignari. Solo io sapevo cosa sarebbe successo. Si sentiva così l’uomo ragno quando i suoi sensi lo avvisavano del pericolo?  Cosa aveva detto Tony Stark all’uomo ragno? Da grandi poteri derivano grandi responsabilità. Non avevo mai pensato di avere grandi poteri, solo un insopportabile condanna, isolato o annientato dal chiasso dei pensieri del mondo.

La decisione fu presa dalla playlist. Partì la canzone “Eye of the tiger” dei Survivor. Che altro potevo fare? Percorsi di corsa i due passi che mi separavano da lui e provai a bloccargli le braccia con una presa da dietro. In televisione sembra semplice. Non avevo mai giocato alla lotta, né con un padre né con amici. Si voltò verso di me spaventato. Mi guardò, lo guardavo. Liberò facilmente un braccio e iniziò a portare la mano al petto. Mi resi conto in un solo momento che il tempo non mi sarebbe bastato. La mia vita finiva quel giorno. Avevo sempre saputo che sarebbe finita con un grande chiasso. La mano arrivò infine al petto, bum…