venerdì 16 giugno 2017

Traiettorie impercettibili

Aveva raggiunto il fondo. Non era la prima volta. Le volte precedenti era convinto che sarebbe riuscito ad uscirne. Aveva sentito una liberazione, nel raggiungere il fondo. Una convinzione che sarebbe stato un nuovo inizio, che sarebbe stata un’opportunità per cambiare tutto. Questa volta no. Sapeva dalle esperienze precedenti, che non ci sarebbe stata nessuna rinascita. Semplicemente avrebbe continuato a scavare e la sua miseria avrebbe raggiunto nuovi ordini di grandezza.

Aveva già perso il lavoro altre volte. Grazie a suo fratello, era riuscito a trovare lavoro in una agenzia delle Nazioni Unite, però era stato costratto a trasferirsi ad Oukbar. Aveva bisogno dei soldi per pagare gli alimenti a sua moglie, che lo aveva lasciato anni prima.

Il problema era imbarazzante, e gli veniva continuamente da piangere a pensarci. Prima di arrivare ad Oukbar pesava 180 chili. Era stato imbarazzante dover spiegare all’ufficio del personale che aveva bisogno di due posti in aereo per poter raggiungere il posto di lavoro. Apparentemente non avevano procedure per poter gestire quel genere di situazioni. Da allora, circa sei mesi fa, non si era più pesato. Sapeva, inconsciamente, che stava ancora ingrassando, ma non aveva voluto pensarci. Due settimane prima aveva avuto una fortissima infiammazione al ginocchio, una delle più comuni complicazioni dell’essere sovrappeso. Aveva sempre rifiutato di definirsi obeso, ma doveva assolutamente imparare a farlo. Era un obeso. Sapeva che anche una piccola perdita di peso poteva fare la differenza a far lentamente passare quell’infiammazione cronica. Invece aveva preso dosi massicce di antinfiammatori. Per una settimana era stato in malattia, e per un’altra aveva optato per lavorare da casa. I nuovi datori di lavoro adottavano dei regolamenti molto aperti nei confonti del proprio personale. Queste due settimane, aveva praticamente vissuto nella propria stanza di albergo, facendosi portare i pasti (e gli spuntini) in camera. Rimaneva in camera perfino quando la cameriera veniva per pulire. La cameriera era veramente gentilissima, quando aveva dolore al ginocchio, lo aiutava a muoversi, alzarsi dal letto. Lui le dava una lauta mancia ogni volta. Aveva continuato ad usare l’aiuto della cameriera anche quando il ginocchio aveva iniziato a fare meno male. Muoversi era comunque complicato con tutto quel peso addosso.

Dopo le due settimane, quando finalmente il dolore era passato, doveva tornare a lavoro. Era molto preoccupato di questo, e non aveva dormito la notte precedente. Dopo due settimane, aveva di nuovo rimesso la sveglia. Appena svegliato, la prima complicazione: alzarsi, senza l’aiuto della cameriera.
Era difficile e faticoso, ma l’aveva fatto sempre, prima. La manovra consisteva nel rigirarsi di fianco, vicino al bordo del letto, fare scivolare la gamba destra fino al pavimento e sollevare il busto, puntellandosi con il braccio destro sul letto. Al secondo tentativo vi riuscì, rimanendo seduto nel letto. Alzarsi era un esercizio di equilibrio, ma prevedendo la difficoltà aveva avvicinato la sedia per puntellarsi. Dopo un paio di tentativi, anche questo scoglio viene superato. Un breve passaggio in bagno. Non riusciva a fare tutto ciò che andrebbe fatto, in termini di igiene personale. Non se ne rendeva pienamente conto, però. Le poche gocce che raggiungevano le parti più nascoste del suo corpo, non bastavano certo a garantire una perfetta pulizia. Alcune parti, le asciugava col fono, perché non riusciva con l’asciugamano ad arrivare a toccare tutte le superfici del corpo.

Non appena vestito – ed anche questo con qualche difficoltà – provò ad uscire per andare a lavoro. Come sempre, si mise di lato per poter passare dalla porta, secondo lui più piccola degli standard europei. Niente, non ci passava. Neanche tirando indietro la pancia con le mani, come faceva in precedenza. Era rimasto incastrato. Dopo qualche tentativo, riuscì a rientrare in stanza. Di uscirne, non se ne parlava. Ansimante dalla fatica, si rimise a letto, completamente vestito. Era disperato. Come sarebbe uscito da questa situazione?

Chiamò subito l’ufficio, non poteva perdere il lavoro di nuovo. Chiese se poteva, ed inventò una scusa pietosa, lavorare dalla sua stanza per un altro giorno. Dall’altro capo del telefono si percepiva il fastidio, comprensibile. Aveva iniziato da pochi mesi e da subito aveva iniziato a mancare per molti giorni, campando storie assurde. Non era risultato simpatico in ufficio. Come può essere simpatico un ciccione dall’igiene discutibile?

Pianse per molto tempo, silenziosamente. Ai lati della testa si crearono due macchie che piano piano si allargarono, man mano nutrite dalle copiose lacrime versate. Era veramente arrivato a toccare il fondo. Era impossibile risalire. Non c’era più nulla da fare. Era solo, in un paese straniero. Sarebbe presto stato licenziato perché non poteva andare a lavoro. Non poteva badare a sé stesso in maniera dignitosa. Era confinato in una stanza.

Svegliatosi, si rese conto che aveva fame, e maledì la sua gola insaziabile. D’impeto, decise che dal giorno dopo avrebbe smesso di mangiare, e avrebbe bevuto solo té. Aveva letto di quel tizio in Inghilterra che aveva perso centoventi chili in quel modo. Nello stesso tempo che quel pensiero attraversò la sua mente, raggiunse il telefono per chiamare il servizio in camera per ordinare i tre panini per lo spuntino di metà mattina. Domani, domani avrebbe iniziato la dieta.

Finiti i tre panini, riprese a piangere. Pianse del suo pianto, che visto da fuori sarebbe sembrato l’archetipo delle lacrime di coccodrillo, che piange dopo aver mangiato la preda. Quello che la gente da fuori non avrebbe capito era che lui piangeva per la sua assoluta disperazione di non essere stato capace di fermarsi. Di aver realizzato che un giorno, allegramente, aveva mangiato fino ad oltrepassare un impercettibile orizzonte degli eventi prima del quale ti puoi salvare e passato il quale cadi per sempre nel buco nero, e ti confondi con esso.

Cercò di isolare quel giorno maledetto, il momento in cui aveva toccato un fondo dal quale c’era speranza di uscire, e non lo aveva fatto, ed invece aveva ordinato altri panini.

Avrebbe dovuto fermarsi prima di perdere il suo primo lavoro. Un lavoro che normalmente gli avrebbe permesso di fare una ragionevole ed onorevole carriera, e che gli avrebbe permesso di mantenere agevolmente la sua famiglia e sostenere il futuro dei suoi figli. Cercò nella sua memoria, il momento preciso dell’inizio della discesa. Si ricordava dell’inizio, quando andava a pranzo con i colleghi, e si rideva in compagnia. In incrementi impercettibili si era poi ritrovato a mangiare nei fast food da solo, sia durante le pause caffè che durante la pausa pranzo. Era stato segato in una riorganizzazione aziendale. Uno, tra i colleghi del suo ufficio, sarebbe dovuto essere licenziato. La scelta del management era inevitabile. Appena fu fatto l’annuncio, tutti capirono chi sarebbe stato fatto fuori. Poteva essere visto come un problema di proporzioni, di pesi, di volumi, di spazio occupato. In questo senso era un problema scientifico, quantificabile, di ovvia soluzione. Poteva anche essere visto come un problema sociale, di appartenenza di gruppo, di similitudine, di empatia, di saper stare con gli altri. In questo era un problema di intelligenza emotiva, anch’esso di ovvia soluzione. Era chiaro anche a lui, e per questo non si oppose, e fu licenziato, e lui stesso si allontanò, come tutti si aspettavano. Quello che non si aspettava era lo sguardo mentre se ne andò. Lo ricordava ancora. Uno sguardo con i sottotitoli: Come ha fatto a ridursi così?

Fu dolorosissimo, la prima volta che vide quello sguardo. Andò nel fast food vicino a piangere e mangiare. Quella fu la prima volta che promise a sé stesso che il giorno dopo avrebbe iniziato una dieta ferrea.

Dopo quel giorno passò da un impego ad un altro, in una spirale discendente. L’altro giorno che avrebbe dovuto marcare il confine fu quando sua moglie se ne andò da sua madre, portando i suoi figli con sé. Pianse e mangiò fino alla vergogna. Vomitò e rimangiò. Allontanò il pensiero di quel giorno, troppo doloroso.

Suo fratello lo aveva aiutato qualche volta, da lontano. Lo aveva convinto, molti chili fa, a seguire la dieta del sondino, pagandone tutte le spese. Aveva seguito fiduciosamente il corso obbligatorio, requisito fondamentale per potersi sottoporre alla dieta; senza attestato di partecipazione il trattamento non poteva aver luogo. Nei canonici dieci giorni di durata della dieta riuscì a perdere 12 chili. Non era sicuro in quanti giorni li riprese tutti. Quando si sentiva in colpa evitava di guardare, e quindi di usare, la bilancia e perdeva quindi la cognizione del suo peso. Quando vedeva suo fratello, temeva sempre il suo sguardo iniziale nell’incontrarlo, che poi in pochi secondi diventava forzatamente fraterno, ed il suo sguardo nel lasciarlo: Come ha fatto a ridursi così?

Tempo dopo, suo fratello gli offrì la salvezza di un nuovo impiego, stabile, e di un nuovo paese ed una nuova vita. Già aveva capito che era stato inutile. La velocità verso questo ulteriore confine era ormai tale che non sarebbe riuscito a rallentare in tempo. Ricordando i suoi studi da ingegnere, pensò che in fondo era una legge fisica. La quantità di moto di un corpo dipende in modo lineare dalla sua massa. La sua traiettoria, ad incrementi inizialmente impercettibili, l’aveva ormai portato vicino al confine di non ritorno e la sua massa era troppa. Non si sarebbe potuto mai e poi mai fermare prima di rovinare tutto. Fosse stato più magro, più leggero, la fisica gli avrebbe permesso di frenare in tempo, prima del confine. I suoi nuovi colleghi l’avevano isolato quasi subito, forse perché era troppo grasso, o forse perché, beh, puzzava.

Non riusciva a passare dalla porta della sua stanza d’albergo. Immaginò un nuovo sé, magro, ridere di questa situazione in spiaggia, in costume, sdraiato nella sabbia vicino ad una bellissima donna. Stranamente, gli venne da ridere, per qualche secondo, ma smise quasi subito.

Allungò la mano verso il comodino, prese il telecomando ed accese il televisore. Girò tra i vari canali, finché non si fermò su un documentario della BBC, parte di una serie sul cambiamento climatico. Un infografica spiegava come il peso combinato di tutti gli esseri umani era di circa trecento milioni di tonnellate. Era dotatissimo con i numberi e fece i calcoli rapidamente: pensò che non era tutta colpa sua, lui rappresentava solo lo poco più che un miliardesimo di quel peso. Uno virgola sei periodico su un miliardo, per la precisione, disse a se stesso, fiero come sempre della sua velocità nei calcoli. L’infografica poi spiegava come vi erano anche settecento milioni di tonnellate di animali da macello, tenuti per la maggior parte in allevamenti meccanizzati. Infine, ed era questo il punto centrale dell’infografica, ci sono meno di cento milioni di tonnellate di animali di taglia paragonabile a quelli da macello, liberi in natura.

Il documentario continuava, spiegando come durante gli ultimi duecento anni, la vera rivoluzione industriale è stata nell’agricoltura e nell’allevamento. Di come prima la maggior parte dell’umanità era impiegata nell’agricoltura e nell’allevamento e manteneva la piccola parte che si occupava di altro, mentre adesso, in alcune nazioni, il due per cento degli occupati nell’agricoltura ed allevamento sono sufficienti a sfamare il restante novantotto per cento. Fantastico, certo, ma a quale costo?

Gli stessi animali sono stati meccanizzati. Prima venivano visti come esseri viventi che possono sentire dolore, e anche sensazioni di soddisfazione, piacere. Adesso, invece, sono gestiti in catene di montaggio. Lo schermo mostrava un nastro trasportatore con pulcini, alcuni dei quali, imperfetti, venivano presi da degli operatori in camice bianco, e buttati. In modo simile, le mucche, sia da carne che da latte, venivano tenute in spazi strettissimi, con gli esemplari non idonei, abbattuti in nome del profitto.

Il documentario passò poi a spiegare che nel passato, fino a pochi anni fa per la verità, lo stile di vita considerato virtuoso era la frugalità. Si ricordò dei propri nonni, e di come erano impacciati le pochissime volte che venivano a mangiare fuori con loro, di come gli sembrasse un lusso non necessario. Mostrarono immagini della pubblicità dei fast food, delle offerte mangiane due che il terzo è gratis, che lui conosceva bene, e di cui aveva approfittato fino al ridicolo. Spiegavano come le moderne tecniche pubblicitarie, erano inclini a far apparire come reali bisogni fittizi, al solo scopo di allargare continuamente la produzione, di come legavano la felicità personale con il consumo continuo.

L’immagine successiva riprendeva un maiale, considerato uno degli animali più intelligenti, dopo le scimmie, costretto a vivere dalla nascita in uno spazio sufficiente appena a contenerlo, senza neanche potersi girare, negli stessi propri escrementi. La ripresa iniziava dalla parte posteriore del maiale, girandogli lentamente attorno, fino a riprenderlo di fronte, negli occhi.

Non riusciva a sopportare quelle immagini, si vide nei panni di quel maiale, costretto a vivere per sempre nei propri escrementi, chiuso in quella stanza di albergo. Gli venne una nausea improvvisa, con conati di vomito, pensando che aveva mangiato carne di maiale poco prima. Poi gli venne un attacco di ansia, e iniziò a respirare affannosamente, come se avesse un peso sul petto. Sapeva che i soggetti obesi presentano un aumentato rischio di aritmie e morte improvvisa, anche in assenza di disfunzione cardiaca. Ci sperò, prima di chiudere gli occhi.

domenica 11 giugno 2017

Rapimento alieno

A volte, nella notte, ci pensava. Come sarebbe stata la sua vita se non fosse stata rapita? Curiosamente, ormai era un pensiero accademico. Non c’era più alcun rimpianto. Considerava la sua situazione normale, anche se presentava ovvie stranezze che le davano da pensare, cui non riusciva ad abituarsi completamente.

Aveva un ricordo di sua madre ormai sbiadito. Ricordava come man mano sua madre avesse perso interesse in lei ed i suoi fratelli. Passava le ore distesa, disinteressata a loro. Ricordava vagamente il dolore di quelle volte che ancora provava ad avvicinarsi e lei, ad andare bene, si girava dall’altra parte, o peggio, la cacciava in malo modo. Nella sua mente, lo considerava un passaggio naturale, dopo averla cresciuta, con sacrifici, quasi con naturalezza, sua madre non si sarebbe più presa cura di lei.

Ricordava vagamente questo passaggio, e ricordava altrettanto vagamente il giorno che fu portata via. Fu in primavera, ne era certa. Arrivarono di mattina, erano altissimi, oscuravano il cielo con la loro statura. Avevano una postura innaturale, che non aveva mai visto prima, ed un incedere insicuro, lento. Non sembrava normale che esseri, senz’altro viventi, potessero muoversi in quel modo che sfidava le leggi della fisica. Emanavano un odore fortissimo, dolciastro, quasi nauseante. Non aveva mai sentito un odore simile. Comunicavano tra loro con dei suoni incomprensibili, monotoni ed appena percepibili. A volte sembrava provassero a comunicare con lei, ed allora alzavano il volume, ma rimanevano incomprensibili. Poi avrebbe imparato a capire qualcosa del loro stranissimo linguaggio. Sua madre era via, quando loro arrivarono, in quelle sue solite scorribande senza orario, a volte di giorno, e a volte di notte, per poi tornare e distendersi pigramente, senza mostrare nessun apparente interesse per lei.

All’inizio lei era timorosa con i nuovi venuti, poi come tutti i piccoli, iniziò a prendere confidenza e a giocare con loro. I loro giochi erano strani, e lei a volte non capiva cosa volessero. Ad un certo punto il loro atteggiamento cambiò ed invece di giocare la presero e la sollevarono da terra fino alla loro stranissima testa. Lei ne fu terrorizzata, era ad un’altezza pari almeno a 10 volte la sua stessa altezza. Temette la volessero mangiare. Cercò di divincolarsi ed urlare, ma senza nessun risultato. La portarono con loro, dentro ad una specia di enorme scatola luccicante, che era lì vicino, e che dovevano aver portato loro. Lei si ricordava bene di non averla mai vista lì. La scatola sembrava riflettere la luce del sole in modo che lei non aveva mai visto. Aveva dei buchi che permettevano di vedere qualcosa dell’interno, ricoperti però da qualcosa che lei non riusciva a capire. La scatola aveva un colore grigio che non aveva mai visto, ed una serie di colori strani, strisce nere, delle strutture rotonde sulle quali si appoggiava che si ripetevano simmetriche su entrambi i lati. Il suo terrore aumentò incontrollabile, cosa volevano farle? Dove volevano portarla? La misero dentro questa scatola, e vi entrarono anche loro. Li vide armeggiare con delle apparecchiature, e la scatola sobbalzò e partì. Man mano inizio ad andare ad una grandissima velocità. Vide scorrere il panorama, prima familiare e poi man mano più alieno e sconosciuto. La sua vita non sarebbe più stata la stessa. 
Adesso la sua vita scorreva in modo abbastanza regolare. Si era fatta un idea di cosa questi alieni volessero da lei. Si era resa conto che per loro lei era una specie di animale da mungere, di cui sfruttare le secrezioni corporee, per qualche loro strano bisogno, che lei non riusciva a capire. Aveva capito abbastanza presto che lei non era la sola in quello stranissimo mondo, ma che tanti altri come lei erano stati rapiti. Gli altri, che incontrava sempre con piacere, per giocare o scambiare impressioni e sensazioni, sembravano essere convinti della genuina amicizia di quegli stranissimi esseri. Per la verità, lei stessa era dubbiosa. In qualche modo loro sembravano affezionati a lei, e facevano di tutto per dimostrarlo. Però, ogni tanto, vedeva le occhiate di paura ed odio di qualcuno di loro verso di lei, e questo la faceva tornare alla realtà. Lei non apparteneva a quel posto.

Quando arrivò nella stranissima abitazione degli alieni, era terrorizzata. La loro casa era formata da un susseguirsi di cubi grandissimi, alti circa il doppio di loro. Tra un cubo ed un altro vi erano delle aperture che rimanevano aperte o chiuse secondo i comandi e desideri degli alieni. Nonostante fossero abbastanza gentili, era chiaro che lei non era libera di andare dove volesse, e che veniva controllata e tenuta dentro questi cubi, insieme a loro. Non la facevano mai uscire da sola, ma la legavano a loro stessi, per evitare che lei potesse spostarsi liberamente al di fuori dei cubi. Anche all’interno di questi cubi, c’erano delle zone dove lei non poteva andare.

I primi mesi furono molto difficili. Ogni tanto la portavano in un area dove eseguivano delle procedure ai rapiti. La prima volta che andò vide l’aria terrorizzata di chi ne usciva e ne fu contagiata. Appena entrata nella stanza dove effettuavano le procedure, vide un alieno con dei drappi addosso diversi da quelli degli alieni che la tenevano con loro. Aveva un aria amichevole, ma sospettò subito che c’era qualcosa da temere. Dopo aver emesso molti incomprensibili versi da quella stranissima bocca, improvvisamente le infilò un ago sottopelle ed inizio a fare delle manovre. Urlò il suo dolore, ma gli alieni continuarono a guardare imperturbabili.

All’inizio fu molto difficile per lei muoversi in quegli strani ambienti dove questi alieni vivevano. Il pavimento era di una sostanza di cui lei non aveva nessuna esperienza, era impossibile correre, sembrava di essere sul ghiaccio. Per correre, ma a volte anche per camminare, bisognava fare molta attenzione a non scivolare. Piano piano riuscì ad abituarsi.

Quello che le faceva più paura era però la ragione stessa, ne era assolutamente convinta, per cui lei fu rapita. Dopo poche ore dal suo arrivo, con imbarazzo si rese conto che doveva andare in bagno. Non trovando nulla che assomigliasse ad un posto dove, insomma… , si potessero fare quelle cose, cercò un posto appartato. Accaddero due cose strane: la prima fu che non appena se ne accorsero, le diedero un colpo con un lungo attrezzo bianco, ripiegato, che aveva delle macchioline nere, dritto in volto, e le urlarono contro con quel loro grottesco modo di esprimersi. La seconda cosa fu che presero le sue cose, insomma… le sue deiezioni, e le riposero via. Inizialmente non diede peso a questa seconda cosa, ma poi iniziò a porvi più attenzione.

Col tempo capì che loro volevano che lei facesse i propri bisogni in dei posti specifici. Quando lei lo faceva, vedeva che loro mostravano ampiamente la loro soddisfazione, con i loro modi di fare strani, finché lei non si rassegnò ad assecondarli in questo. Si accorse anche che loro raccoglievano religiosamente tutte le deiezioni per poi riporle via. All’inizio immaginò fosse una stranezza del gruppo di alieni che l’avevano rapito, ma presto si accorse che tutti gli alieni facevano la stessa cosa con tutti i rapiti.

Quando si rese conto di questo, cercò di mandare a monte i loro piani, sperando di essere portata indietro, dalla madre e dai fratelli. Iniziò a trattenere, ma chiaramente questa non era una strategia possibile nel lungo termine. Poi sperimentò a farla nei posti sbagliati, quando loro non erano presenti.

Capì di aver colto nel segno, quando si rese conto che questo li innervosiva molto, era come se le deiezioni perdessero di valore. Comunque le riponevano via, ma con ovvio nervosismo. Ripresero a colpirla con l’attrezzo oblungo ripiegato. Questo attrezzo era stranissimo. A volte lo usavano per punirla ed in altri momenti utilizzavano l’attrezzo completamente dispegato ed aperto e potevano passare ore a guardarlo con interesse. Alla fine, quando si rese conto che non l’avrebbero riportata indietro, smise la protesta, con ovvia soddisfazione degli alieni.

Dopo diversi mesi, iniziò quasi ad affezionarsi ai quei stranissimi esseri. Tutto sommato, si prendevano buona cura di lei, e ogni tanto le portavano quei buonissimi ossi di prosciutto che lei addentava con grandissimo piacere.