sabato 1 luglio 2017

Il mio razzismo non mi fa guardare

Ormai erano settimane che non mi alzavo dal letto del misero ospedale da campo della ONG che era stata sufficientemente caritatevole da prendersi cura di me, ad Oukbar. La febbre emorragica stava lentamente completando il suo corso. Avevo rifiutato l’offerta della Farnesina, ritardata e comprensibilmente tiepida, di organizzare una MEDEVAC (evacuazione per motivi medici). Poche settimane prima ero stato fonte di imbarazzo, sia per il governo italiano, sia, più in generale, per i governi occidentali.

Fino a poco tempo fa, ero una guardia giurata, un bodyguard, un buttafuori insomma, che tirava a campare tra incarichi di altalenante dignità. A me piaceva definirmi specialista in sicurezza, la locuzione mi sembrava desse l’immagine che desideravo la gente avesse di me. “Specialista” implica esperienza, istruzione pratica, utilizzabile. “Sicurezza” implica affidabilità, forza, capacità di gestire le situazioni. Purtroppo, la crisi non mi dava le opportunità che meritavo. Passavo da un lavoro ad un altro, con contratti temporanei, legati per lo più ad eventi. Avevo un paio di locali che mi garantivano un minimo di continuità di (poche) entrate, per il resto dipendevo della fortuna e dai miei amici che mi passavano le dritte sulle occasioni di lavoro.

La mia istruzione era stata, come si diceva nei romanzi di una volta, la strada. Mi vantavo di questo, e pensavo che l’abbandono della scuola subito dopo gli anni dell’obbligo, fosse stata la scelta giusta. Questa era una sorgente continua di discussione con mia madre, che avrebbe preferito che io avessi continuato a studiare. Mio padre, invece, prese la cosa serenamente. Se non hai la testa per studiare, diceva, cerca di averla per lavorare. Avevo razionalizzato a posteriori che permettere alla strada di forgiarmi fosse stata una scelta consapevole, deliberata. Una postilla di questa razionalizzazione voleva che io dubitassi di chi aveva un’istruzione formale, o anche semplicemente leggesse libri.
Non erano forse questi libri e giornali ad averci portato a questa crisi che stiamo vivendo? Questa pietà verso questa orda di barbari che ci stava invadendo, che arrivava fino all’assurdo di priviliegiare loro nell’assegnazione di case popolari e posti di lavoro. I libri e giornali certo non le riportavano queste notizie, ma cercavano invece di creare un senso di compassione per questi straccioni. C’erano delle eccezioni, alcuni libri e giornali che dicevano le cose come stavano, ma erano troppo pochi. I politici per la maggior parte davano il benvenuto a questa gente, oppure si opponevano troppo debolmente. Espellerli, pagandogli anche il viaggio di ritorno? Ero convinto che bisognasse lasciarli affogare in mare. Loro era stata la decisione di voler venire, che se ne assumessero anche i rischi. Perché i cittadini italiani devono pagare per salvare questi miserabili? Forse è proprio la scuola che mette in testa idee sbagliate, pensavo. La strada non sbaglia. L’esperienza forma sulla base della realtà, non sulla base di idealismi che non si possono applicare. Noi siamo italiani e stiamo in Italia, voi siete africani e state in Africa, o arabi e state in Arabia, non dovete venire a rompere le scatole qua da noi.

Purtroppo però, l’esperienza vera non viene ripagata come dovrebbe, pensavo allora, e faticavo a trovare impieghi stabili. La mia ragazza iniziava ad essere infastidita dalla precarietà, e mi aveva chiesto di considerare di prendere un diploma, per poter avere speranze di lavoro. Con tutta l’esperienza che avevo, mettermi a competere con dei ragazzini per un foglio di carta. Moltiplicai il mio impegno per svoltare, per trovare la soluzione ai miei problemi. Un giorno incontrai un vecchio amico del gruppo dal bar che frequentavo da ragazzo, Carmine. Avevamo provocato parecchie risse io e lui. Mi ricordo che la nostra tecnica era di provocare le coppiette, fino a far sbroccare il ragazzo, per poi picchiarlo davanti alla ragazza. A volte ci imbucavamo in delle feste, in gruppo. Uno di noi staccava il contatore della luce e giù botte a tutti. Scherzi di gioventù, che però ti insegnano un trucco o due che possono essere utili nella vita reale. Mi avvicinai, e lui si ricordò subito di me. Passammo qualche ora a parlare degli scherzi fatti da ragazzi. Immaginavo che lui fosse entrato in qualche giro grosso, e lui mi spiegò come era stato assunto da un azienda americana di sicurezza per lavorare all’estero. Il lavoro era duro, lontano da casa per parecchi mesi all’anno, ma la paga mensile era di un livello che non avevo mai visto. Arrivava a cinquemila euro, che tolte le spese voleva dire metterne da parte almeno tremila al mese. Faticavo a capire cosa si potesse fare con una cifra del genere ogni mese. Potevo entrare anch’io? Glielo chiesi subito. Lui mi disse che il lavoro era veramente duro, e con dei rischi, ma noi siamo nati e cresciuti duri, e ci siamo sempre presi i nostri rischi. Mi disse anche che i suoi superiori erano sempre in cerca di nuove persone, e che c’era già un bel gruppo di italiani. Gli risposi che ero disposto ad andare anche in capo al mondo per quei soldi. 

Quella sera fui come ubriaco dal pensiero di poter svoltare anch’io, di poter sposare Jessica ed andare a vivere insieme. Immaginai i posti dove sarei andato facendo un collage dei film di Van Damme, di Steven Seagull. Mi immaginai avventure esotiche dove anch’io avrei potuto far valere la mia esperienza, per poi tornare a casa e raccontare tutto a Jessica. Forse mi avrebbero pure fatto usare le armi, nei posti dove mi avrebbero mandato. Non le avevo usate spesso, ma quelle poche volte pensavo di aver fatto bene, e di avere un dono naturale nell’usarle. Non vedevo l’ora.
Carmine mi richiamò come promesso, qualche giorno dopo. Mi diede subito la buona notizia. C’era posto, non avrebbero neanche fatto un colloquio, si fidavano della parola e della garanzia di Carmine. Carmine mi spiegò che sarebbe arrivata a casa una lettera in inglese, che io avrei dovuto firmarla e rimandarla indietro. Fatto questo mi avrebbero mandato un biglietto a casa per la mia prima destinazione.

Jessica non fu molto contenta all’inizio, ma quando le raccontai di Carmine, e di come tutti gli amici lo festeggiarono quando venne con la BMW, iniziò a cambiare idea. Le piaceva l’idea di avere un mensile fisso e di potersi sistemare. Passammo il pomeriggio a fantasticare sul nostro futuro stile di vita.

Dopo un paio di settimane, in cui temetti che si fossero dimenticati di me, ricevetti la lettera. Non ci capivo nulla, ma capivo dove dovevo firmare, e comunque mi fidavo di Carmine. Firmai e la rimandai indietro. Dopo un’altra settimana, mi arrivò la lettera con il biglietto aereo. Avrei iniziato ad Oukbar. Ebbi qualche tentennamento. Non mi piacevano quei posti pieni di musulmani. Non ci si poteva fidare di quella gente. Ormai avevo firmato, pensai, e mi rassegnai a dover andare.
Partii di Domenica. Mi ricordo il senso di perdita nel lasciare l’Italia, e nel dare l’ultimo saluto a Jessica ed ai miei genitori in aereoporto. Cos’avrei trovato dall’altra parte? Mi ricordo vivamente l’uscita dall’aeroporto di Oukbar, quella folla di bambini e straccioni che mi urlavano per offrirmi qualcosa, immaginavo volesser soldi. Un caos, un caldo ed una puzza che andavano oltre la mia immaginazione. Mi pentii di aver accettato, mi sentii perso per un istante, finchè non vidi un tizio con un cartello con il nome dell’azienda che mi aveva assunto, e subito sotto il mio nome. Fu come un faro nella nebbia, lo seguii fino alla calma della macchina con aria condizionata che lasciava il caos di quel posto infernale fuori.

Il tizio fortunatamente parlava italiano, e mi spiegò che il mio superiore, e diversi operativi del mio gruppo erano italiani. Quando sentii la parola “operativi”, mi sembrò che l’esperienza divenne reale, che il lavoro sarebbe stato importante, e mi sforzai di ripetere quella parola più volte nel raccontare le mie esperienze “operative” passate. Le gonfiai un pò per non sembrare inadeguato all’importanza del mio nuovo lavoro.

Mi presentarono al mio nuovo capo, che si faceva chiamare “Martello” in italiano e “Hammer” in inglese. Quello era il suo nome in codice, mi dissero. Pensai che avrei dovuto sceglierne uno anch’io, forse. Martello mi spiegò per sommi capi qual’era il nostro lavoro, ma disse che il briefing era schedulato per il giorno dopo, alle sette zero zero. Mi illuminai nel sentire le parole “briefing” e “schedulato”, e nel sentire l’orario espresso come i militari americani (sette zero zero sta per sette in punto di mattina). Altro che le serate da buttafuori, qua si faceva sul serio.

Dopo una notte agitata, in parte dalla paura del posto ed in parte per l’emozione del nuovo lavoro, mi presentai per il briefing in perfetto orario. Mi fecero un introduzione di circa quattro ore in cui coprirono diversi aspetti del nuovo lavoro. In primo luogo mi diedero un introduzione alle usanze locali. Mi dissero di evitare contatti con la gente del posto il più possibile. Ad andare bene ti chiedono soldi, ad andare male ci odiano. Mi mostrarono poi una serie di foto che documentavano i dettagli cruenti di alcuni attentati che erano avvenuti ad Oukbar. Martello mi disse che le aveva scattate lui, per usarle nel briefing introduttivo. Mostravano parti di membra e parti del corpo umane dilaniate da varie esplosioni, una persona tranciata a metà, con gli occhi aperti, mi sembrava viva, ma la parte inferiore mancante dall’ombelico in giù. Poi una donna senza le gambe, con un pezzo di osso che le usciva dalla gamba destra, presa nell’atto di guardarsi intorno. Perché si guardava intorno? Perché non urlava dal dolore? Dopo la prima decina di foto, mi venne da vomitare, ma mi trattenni, che figura avrei fatto? Cercai di soffermarmi su particolari insignificanti, per non distogliere lo sguardo, ma allo stesso tempo resistere alla nausea. Notai come la carne umana assomiglia alla carne di pollo, non a quella bovina o suina. Il pensiero mi fece aumentare la nausea, e passai a concentrarmi sugli oggetti nelle foto, per evitare di guardare persone, intere o a pezzi.

Alla fine della collezione di foto, Martello mi spiegò che questo era quello che questa gente fa ai loro stessi compaesani, figurarsi cosa sono disposti a fare agli stranieri. Che queste foto ti siano di insegnamento, tieniti alla larga da loro, e diffida sempre, mi spiegò. Poi mi spiegò dei vari edifici dell’azienda americana per la quale lavoravamo, degli spostamenti quotidiani, del nostro ruolo nel garantire la sicurezza e dei protocolli di comunicazione. Poi passò alla parte che mi fece passare la nausea, le dotazioni di sicurezza assegnateci. Sia i gadget per le telecomunicazioni, che le armi erano di ultima generazione. Mi sentivo come un bambino in un negozio di giocattoli. Mezza giornata alla settimana era dedicata al poligono. Finalmente avrei potuto sparare con continuità, pensai.

Passarono alcune settimane in cui cercai di imparare dagli altri. Capii che in fondo si trattava di scortare persone da un posto all’altro e di garantire la sicurezza di un paio di stabilimenti fuori dalla città. Inizialmente mi occupai di dare supporto ad operativi più anziani negli spostamenti, e mi ritrovai negli stabilimenti solo di passaggio. Un giorno accadde un incidente in uno degli stabilimenti dove avevo accompagnato delle persone. L’operativo di stanza nello stabilimento per quella settimana si era sentito male. Dissenteria, probabilmente, a volte capitava. Dovette essere riportato indietro, ma bisognava lasciare qualcuno in stabilimento. Mi chiesero se me la sentivo. Certo, risposi. Presi tutta la mia dotazione di sicurezza e mi fu assegnata una stanza all’interno del perimetro dello stabilimento. A causa di scarsità di personale, e del malessere del collega, eravamo solo in due, per cui dovevamo fare turni di dodici ore a testa finché non ci avessero mandato rinforzi.

Essendo l’ultimo arrivato mi toccò la notte. La prima notte passò senza incidenti. Ero però molto nervoso perché mi rendevo conto che era impossibile controllare tutto. Spesso vedevo gente del posto, che lavorava in stabilimento, spostarsi dalla propria postazione ed andare in giro all’interno del perimetro. Era sicuramente una situazione molto rischiosa.

La seconda notte, una notte terribilmente calda, rimasi a controllare dalla mia postazione in alto, con aria condizionata, da cui vedevo buona parte dell’area dello stabilimento. Ogni paio d’ore facevo un giro. Avevo deciso di farlo ad intervalli non regolari. Mi ricordavo che nei film, chi voleva entrare o uscire da un posto cronometrava il giro delle sentinelle. Con me non avrebbe funzionato. Alla prima uscita, verso le ventidue zero zero vidi un tizio con una barba lunga, che sembrava molto nervoso, sudato, che era appena uscito dal bar. La parte esterna del bar, aperta anche ai lavoratori locali, era però chiusa. Era senz’altro uno del posto, da come vestiva. Mi avvicinai senza farmi vedere. Aveva un giubbetto con molte tasche, tutte piene di oggetti cilindrici, mi sembrava. Sentivo sirene di allarme nella mia testa. Questo ha in mente qualcosa di brutto, pensai. Era appena fuori dal muro dell’edificio dove abitavano i manager dello stabilimento, tutti occidentali. Il muro dava sul cortile interno, vicino alla parte del bar che dava sull’interno, ancora aperta, dove a quest’ora probabilmente stavano ancora seduti tutti a chiacchierare e bere birra. Mi dava le spalle, e prese uno degli oggetti cilindrici, fece il gesto di togliere la spoletta dalla bomba e capii subito tutto. Estrassi la mia pistola e feci subito fuoco, tre colpi. Sono un grande, pensai, uno dei colpi lo aveva colpito alla testa uccidendolo subito. Non aveva avuto il tempo di buttare la bomba al di là del muro. Il muro avrebbe resistito ad una bomba a mano. Mi gettai a terra ed urlai, per farmi sentire anche dall’altra parte del muro, di gettarsi tutti a terra. Udii un vociare agitato dall’altra parte, e attendevo l’esplosione. Contai fino a dieci, e non venne. Contai fino a venti ed ancora niente. Dall’altra parte, dopo essere stati in silenzio per qualche secondo, ripresero a parlare, dubbiosi. Vidi che alcuni iniziarono cauti a passare attraverso il bar, per uscire fuori e capire cosa era successo. Li fermai con voce imperiosa. Chiamai l’altro operativo, sostanzialmente il mio superiore in quella situazione. Nel frattempo iniziai ad avvicinarmi, per vedere se c’erano altre bombe nelle tasche dell’individuo. Aprii una tasca delicatamente, e vidi due lattine di birra. Raggelai improvvisamente. Cercai la bomba che avrebbe dovuto avere in mano, e vidi una lattina di birra rotolata ad un paio di metri di distanza dal corpo, e la linguetta, rimossa dalla lattina, ancora incastrata nel dito indice della mano destra dell’individuo. Immagino che svenni a quel punto, perché non ricordo più nulla.

Quando mi svegliai, vidi lo sguardo severo e sprezzante di Martello. Senza nessun riguardo per lo shock che avevo avuto mi iniziò ad urlare che ero un imbecille, e che se ne era accorto subito. Che si era stancato di ricevere bulletti che credevano di essere del mestiere e si rivelavano femminucce, ad andare bene, o imbecilli, nel peggiore dei casi. Immaginai in quale categoria mi aveva messo.

Dopo avermi urlato contro per una decina di minuti mi disse che avevo due possibilità: o mi consegnavano alle autorità locali, oppure dovevo firmare una carta dove dichiaravo di non avere mai avuto nulla a che fare con loro e mi avrebbero dato un biglietto per tornare a casa con un calcio nel sedere. Loro avrebbero provveduto a ripulire la scena e comprare il silenzio della famiglia della vittima, come avevano fatto nel passato nel caso di incidenti sul lavoro.
Terrorizzato all’idea di finire in una prigione di questo paese di selvaggi, firmai subito. Martello mi diede un biglietto per tornare in Italia il giorno dopo (anzi oggi stesso, visto che era passata la mezzanotte). Senza altre cerimonie, approfittando che ero ancora in confusione, mi mise letteralmente fuori dal cancello esterno dello stabilimento, in strada, con la mia valigia, che qualcuno doveva aver preparato nel frattempo.

Era mezzanotte e non avevo idea di cosa fare. Iniziai a spaventarmi, pensando a cosa mi avrebbe potuto fare la gente di questo paese. Mi sedetti fuori dal cancello, aspettando l’alba. Mi svegliai poco prima dell’alba, quando il cancello si aprì per fare uscire un convoglio, presumibilmente diretto ad Oukbar. Chiesi un passaggio, ma mi guardarono come si guarda un ridicolo idiota, sicuramente la storia dell’imbecille che aveva sparato ad un tizio che stava aprendo una lattina di birra aveva fatto il giro dello stabilimento. Mi lasciarono lì. Non avevo idea ci come avrei potuto raggiungere Oukbar, e quindi l’aeroporto. Aspettai che uscisse qualcun’altro, e mi ripromisi di attaccarmi alla macchina e di non farli proseguire, a meno che non mi avessero portato con loro. Dopo mezz’ora, si riaprì il cancello ed uscì un altra macchina. Mi misi di fronte, per non farli passare. Li vidi indecisi, presero il telefono per chiamare. Dopo due minuti arrivò Martello, con una mazza da baseball, urlando. Mi allontanai correndo con la valigia e la macchina prese la via di Oukbar. Iniziai a seguire la strada verso Oukbar, camminando. Ero molto spaventato. Guardavo le macchine che passavano, sperando di vedere qualche straniero che potesse darmi un passaggio. Dopo una decina di minuti si fermò una macchina, era un tizio del posto, e mi chiese qualcosa nella sua lingua. Non era aggressivo. Feci il gesto per spiegare che non capivo e se ne andò. Se ne fermarono un altro paio, stessa sequenza di azioni. Poi se ne fermò un’altro, questo parlava inglese, ma io purtroppo no. Dopo qualche tentativo disse, scandendo le parole come ad un bambino: “DO YOU GO TO OUKBAR?”, questo lo capii. Risposi di sì, ma non troppo convinto. Mi offrì un passaggio, ero molto timoroso, ma accettai. Continuare a camminare non mi avrebbe portato ad Oukbar in tempo ed avrei perso l’aereo.
Il tizio provò ad iniziare una conversazione in inglese, ma non riuscivo a seguirlo, così rinunciò. Arrivati alla periferia della città, mi chiese, scandendo le parole “WHERE DO YOU GO?”. Gli dissi che andavo all’aeroporto, e mimai gli aerei che partono. Mi disse qualcos’altro, ma non capii. Dopo dieci minuti si fermò e mi fece scendere. Immagino che cercava di dirmi che mi avrebbe lasciato lì, perché doveva andare e mi diede indicazioni per arrivare all’aeroporto. Le ripetette tre volte, a gesti, per assicurarsi che avessi capito. Non ero sicuro di avere capito, ma feci finta di sì, per non sembrare stupido.

L’aereo sarebbe partito tra quattro ore, pensai che sarei riuscito ad arrivare, anche a piedi. Mentre ero in macchina avevo visto la direzione degli aerei in atterraggio ed in partenza ed avevo un idea di dove fosse l’aeroporto. Mi incamminai nella direzione che avevo in mente. Ogni tanto vedevo gli aerei decollare o atterrare, anche se ancora non troppo vicini, ma più o meno nella direzione dove stavo andando. Il tempo passava, mancavano adesso tre ore, e mi ero avvicinato, ma non ancora abbastanza. La valigia mi rallentava. Vedevo gli aerei più vicini, ma non vedevo l’aeroporto. Dopo un’altra ora, iniziai a vedere gli aerei più vicini, mancavano adesso due ore, ed ancora non ero in aeroporto. Aprii la valigia, presi le cose più importanti, le misi in una busta di plastica abbandonando il resto, e mi misi a correre. Dopo meno di mezz’ora vidi finalmente la pista dell’aeroporto a meno di un chilometro di distanza, e mi si aprì il cuore: finalmente. Giunsi fino alla rete che delimita la pista. Adesso dovevo solo costeggiarla ed arrivare all’ingresso passeggeri. Guardai per capire dove andare e mi scappò un urlo di disperazione, era dalla parte opposta. Avrei dovuto fare tutto il giro esterno.

Lasciai anche il sacchetto e ripresi a correre seguendo la strada che costeggiava la pista. Ad un certo punto la strada si allontanava dalla pista e andava verso l’interno. Disperato, chiesi a gesti ad un ragazzo là vicino su un motorino, se mi avrebbe portato all’aeroporto. Gli mostrai cento dollari. Il ragazzo mi fece salire e partii. Vidi che girava e andava dalla parte opposta, gli gridai di tornare indietro, lui mi disse qualcosa nella sua lingua, ma poi seguì le mie indicazioni. Vidi che si allontanava dall’aeroporto, allora gli gridai di fermarsi, lo mandai a quel paese e scesi. Non riuscivo più a ragionare. Corsi verso l’aeroporto. Dopo venti minuti, ormai mancava meno di un ora alla partenza, un tizio del posto, in macchina, si fermò e mi chiese qualcosa in inglese. Gli risposi che non capivo, in italiano. Allora lui, in italiano stentato, mi ripetè la domanda. Appena sentii il suo italiano scoppiai a piangere e gli chiesi di accompagnarmi in aeroporto che il mio aereo stava partendo. Mi fece salire e girò per tornare indietro, gli dissi che l’aeroporto era dall’altra parte, e lui mi spiegò che non c’era una strada per l’aeroporto da quella parte, perché c’è un’enorme palude che si estende per parecchi chilometri. Bisognava tornare indietro. Maledii me stesso e pregai Iddio che mi facesse arrivare in tempo. Arrivammo dopo poco più di mezz’ora. Scesi correndo e cercai i banchi del check-in. Superai la fila perché non c’era molto tempo. Un tizio mi urlò qualcosa, presumibilmente per lamentarsi del mio comportamento, io gli urlai di contro delle male parole e continuai. Arrivato al banco, chiesi alla signorina di farmi fare il check in. Lei mi disse qualcosa in inglese, immagino mi disse di tornare indietro e rispettare la fila. Io le urlai contro che era tardi. Lei mi ignorò e continuò a servire il passeggero successivo. Sperai di avere la mia pistola. Dopo altre urla da parte mia si decise a vedere il mio biglietto. Guardò verso la lavagna con gli orari, sgranò gli occhi, poi mi guardò in faccia e mi disse qualcosa. Andò nel retro, in ufficio e tornò con un signore. Questo signore parlava un pò di italiano. Mi spiegò che era troppo tardi. Ormai mancavano meno di dieci minuti. Mi fece segno di seguirlo e mi mostrò dai vetri che danno sulle piste l’aereo dell’Alitalia. In quel momento si vide un addetto con un giubbetto fosforescente che uscì dall’aereo, e la porta che si chiuse. Chiesi all’uomo di chiamarli, di fermare l’aereo. Lui mi spiegò che non si poteva. “Come non si può, per forza si può. Come faccio adesso?”, risposi urlando. Lui mi indicò nuovamente l’aereo, che iniziò a muoversi  in quel momento per raggiungere la pista di decollo. Per la seconda volta in poche ore, svenii.
Rinvenii dopo pochi minuti, immagino. C’era un infermiere vicino a me. Il tizio che parla italiano mi chiese se volevo essere accompagnato in ospedale. Certo che no, risposi. Mi propose di andare in biglietteria per vedere se potevo cambiare il biglietto per il prossimo volo. Andai, ormai fiaccato dalla sfortuna. In biglietteria, naturalmente, mi dissero che non era possibile. Era un biglietto superscontato che non prevedeva cambiamenti o rimborsi. Chiesi quanto costava un nuovo biglietto per il prossimo volo. Non possedevo quella somma. Non avevo idea di cosa fare.
Tornai dal tizio che parlava italiano. Mi propose di chiamare l’ambasciata italiana. Chiamai l’ambasciata. Appena detti le mie generalità, dall’altro capo del telefono mi chiesereo di non andare da nessuna parte. Sarebbero venuti a prendermi loro subito. Arrivarono in tre. Appena li vidi mi tornò la speranza. Provai a raccontargli la mia disavventura, ma mi zittirono e con una faccia seria e mi chiesero di seguirli in ambasciata. Arrivati in ambasciata mi chiusero in una stanza. Arrivò un carabiniere. Mi chiede le mie generalità. Mi chiede di raccontargli dove sono stato nelle ultime ventiquattro ore. Dissi tutto, dimenticandomi di aver firmato una carta che dice che io non avevo mai avuto nulla a che fare con la ditta dove avevo lavorato, ma ometto il fattaccio.
Il carabiniere uscì. Rientra dopo circa un ora, con Martello. Il carabiniere mi guarda, come si guarda un ridicolo idiota, lo stesso sguardo di Martello, e mi spiega la mia situazione. A quanto pare la notizia dell’uccisione è di ominio pubblico. Qualche dipendente italiano l’ha comunicata ai media italiani, e qualche dipendente locale ha informato la polizia del posto. Il Presidente di questo paese si è lamentato formalmente con l’Italia. Poco dopo, Martello, è riuscito a convincere la polizia locale che il tizio stava rubando della birra. Stranamente, in questo paese, puoi sparare a chi ti ruba qualcosa. Quindi, qui sicuramente non sarei stato incriminato. Questo caso però è diventato un imbarazzo sia per l’Italia che per l’Unione Europea. L’ambasciata non mi può aiutare. Sembrerebbe che mi stiano sottraendo alla giustizia locale. Ero libero, potevo andare. Dove?

Vagai per Oukbar. Avevo paura di quando sarebbe sceso il buio. Avevo qualche soldo per pagarmi un paio di notti di albergo. Scesi un albergo dove vedevo anche stranieri, ma non troppo costoso. Passai due giorni e due notti nella stanza, non mi sentivo bene. Finii i soldi. Tornai a vagare per la città, con un forte mal di testa e nausea. Vidi una clinica gestita da europei o americani. Entro e svengo.

Mi risvegliai in un letto della clinica. Un’infermiera del posto mi sistema l’ago della flebo. La caccio via, non è che mi fa venire qualche malattia con quelle mani sporche? Viene un dottore, lui è occidentale. Non parla italiano, e chiama un collega italiano. Gli spiego quello che è successo. Mi guarda anche lui come se fossi un ridicolo idiota. Mi spiega che io sono in cura come cortesia, non per diritto. Se continuo a maltrattare le infermiere mi butta fuori.

Passarono i giorni. La mia salute non migliorava. Avevo una letargia ed una spossatezza che mi faceva dormire quasi tutto il tempo. Tutti i dottori occidentali mi guardavano come se fossi un ridicolo idiota. I dottori e gli infermieri del posto mi guardavano invece con gentilezza. Non mi accorgo subito di questa differenza, ci metto un pò. 

Una delle infermiere che parla italiano, l’unica che chiacchiera con me e mi da un pò di conforto, mi spiega che sua sorella sta provando ad andare in Italia. Il marito l’ha lasciata. Appena ha visto per la prima volta la prima figlia, appena nata in ospedale, ha picchiato mia sorella e l’ha lasciata. Aisha ha entrambe le gambe malformate. La malformazione nel nostro villaggio è vista come una maledizione. Il diavolo ti ha fatto visita, pensano. Una donna sola non ha futuro qui, mi dice l’infermiera. Le servono strutture e servizi adeguati per poter crescere la figlia dignitosamente. Mi chiede se in Italia esistono queste strutture. Rispondo di sì. Auguro buona fortuna a sua sorella, sinceramente.

Sono stato un ridicolo idiota. Speriamo che le storie su quelli che si convertono in punto di morte siano vere. Gesù, Muhammad, ho sbagliato tutto. Perdonatemi e prendetemi con voi.