sabato 11 marzo 2017

Piccola antologia di Farello

Quella settimana gli alberghi a Manhattan erano accessibili. Avevo pernottato all’Hilton Manhattan East per 149 dollari a notte. In altri periodi a quel prezzo non avrei neanche preso i loculi che sono così in voga tra la gioventù urbana, i millennials (si dice così?). Tempo fa li avevo provati: il bagno nel mezzo della stanza di 6 metri quadri ad andar bene, separato da una vetrata. I bisogni grandi mi davano una sensazione di essere alla mercé di tutti, l’intimità violata.

Pensai che ormai non ci facevo neanche più caso. Da quando avevo iniziato il mio calvario, la mia pudicizia era stata gettata alle ortiche, la mia intimità sotto gli occhi di schiere di infermieri e dottori, in almeno due continenti. Il mio non era un fiore in bocca, ma un bulldog nello stomaco. Come per il povero Zanna Bianca di Jack London che aveva avuto il suo collo stretto tra le fauci del bulldog, non era possibile sfuggire a quella morsa,  inesorabile come il  Fato. Ci avevo provato. Dall’Istituto Tumori di Bari, al Centro di Riferimento Oncologico di Aviano, al Gustave Roussy di Parigi fino al Memorial Sloan-Kettering Cancer Center di New York City. Un giro sulle montagne russe da una parte all’altra del laghetto, come dicono gli anglosassoni, riferendosi all’Atlantico. Dalla rassegnazione, alla speranza per poi tornare alla rassegnazione. Altro giro, altra corsa.

Il linfoma non-Hodgkin è un tumore che prende origine nel sistema linfatico, ovvero nelle cellule e nei tessuti che hanno il compito di difendere l'organismo dagli agenti esterni e dalle malattie. Per il linfoma non-Hodgkin si utilizza un sistema di classificazione che distingue quattro stadi di malattia indicati con i numeri romani I, II, III e IV. Io ero al III all’inizio. Volevo tanto tornare indietro a II, ma il tempo ed i bulldog seguono una sola direzione.

Il primo dottore era un chirurgo e mi ha operato. Il secondo dottore era un oncologo, e mi ha detto che il primo dottore non capiva nulla. Neanche il secondo dottore è riuscito a curarmi. Il terzo dottore mi ha detto che il primo non capiva nulla. Neanche il secondo. Neanche lui è riuscito a curarmi. Il quarto dottore parlava francese. Meno male. Non sono riuscito a raccontargli dei primi tre, e mi sono risparmiato la sua opinione su di loro. Neanche il francese è riuscito a curarmi. Il quinto parlava inglese. Il bulldog non parla nessuna di queste lingue, perché neanche l’americano è riuscito a curarmi. Il bulldog è resistente, né veleni né radiazioni né cellule staminali gli hanno fatto mollare la morsa, sempre più vicina alla mia giugulare.

Avevo il volo per tornare a casa alle dieci e venti di sera, da JFK. Avevo lasciato l’albergo verso le tre e mezza. Conoscevo i ritmi di NYC, ci ero stato molte volte per lavoro. Era venerdì, se avessi aspettato ancora, il traffico mi avrebbe costretto ad un calvario di almeno due o tre ore. Meglio partire prima ed aspettare nel business lounge dell’Alitalia.

Ormai ero al di là della rassegnazione. Avevo la serenità di chi non aveva più nulla da provare. Nessun tentativo era più possibile. Ero arrivato. Non c’era più nulla dentro, guardavo fuori con un distacco che non avevo mai provato. Guardavo la skyline di New York dal taxi che mi portava all’aeroporto come se fosse un film. Il tassista era uno di quelli che amava parlare. Erano anni che non ne incontravo più a NYC. Mi ha raccontato la sua vita, profugo da Oukbar, non ho capito bene se da Tankshabad o da un'altra città, fiero di essere negli Stati Uniti, per lui terra della speranza. Mentre ascoltavo con un orecchio il suo denso accento orientale, mi sembrava bellissimo. Mi riportava a quando, molti anni prima, andavo ad Oukbar per lavoro. Altro che gli Stati Uniti, altro che New York, avrei voluto tornarci. Vi ero stato all’inizio della mia carriera, in cui ogni viaggio era un’avventura esotica. Mi ero innamorato di Oukbar, vi ero stato un anno, e l’avrei portata sempre nel cuore. La vita era semplice, eravamo una comunità di stranieri, che si frequentava e viveva insieme, molti di noi giovani. Vivevamo quel senso di privilegio di essere occidentali in un paese del terzo mondo senza vergogna, come se ci spettasse di diritto. Continuai ad ascoltare il tassista con piacere, mentre osservavo la distesa di edifici, via via più bassi, immaginando la vita di coloro che vi abitavano.

Arrivato all’aeroporto, osservai la finta cortesia degli addetti al check in e provai a intuire quali fossero i loro veri sentimenti nei confronti dei viaggiatori, ed in particolare di una coppia di fastidiosi passeggeri di business class, lui asciutto, alto ma curvo e lei corpulenta e molto truccata in viso, che probabilmente pensavano che il sovrapprezzo pagato per assicurarsi il biglietto in classe business li avesse fatti diventare padroni dell’aeroporto.

Lasciato il bagaglio osservai la proverbiale scortesia degli agenti del controllo passaporti di NYC. C’era una povera signora che non capiva l’inglese. L’agente doveva aver pensato che declamare le istruzioni a voce via via più alta le rendesse più comprensibili alla povera signora. Mentre andai per avvicinarmi ad aiutare, un anima pia nelle vicinanze si fece avanti per tradurre per la signora.
Non volevo fare shopping. Per chi? Perché? Andai nel business lounge, premio ambito dei frequent travellers che hanno abbastanza miglia accumulate e fanno parte dei club esclusivi. Mi sedetti, ignorando le libagioni gratuite e finalmente riflettei su cosa mi aspettava. Non ci girai molto attorno. Mi aspettavano poche settimane di vita, forse. Ogni momento poteva essere quello buono. Non avevo capito bene i dettagli di cosa poteva succedere. Probabilmente il fegato, la cui funzionalità era minima o nulla avrebbe ceduto, avvelenando il sangue, mi era sembrato di capire. Oppure il cuore, già ballerino di suo, visto il quadro compromesso, avrebbe potuto caritatevolmente cedere, risparmiandomi maggiori sofferenze. Il sistema audio del lounge spandeva musica di Thelonious Monk, opportunamente allegra. Riconobbi la versione di Miles Davis di Straight No Chaser, probabilmente registrata al Newport. La tromba di Miles era inconfondibile, pensai automaticamente.

Bene, organizziamoci: che si fa? Sorridendo, pensai che avevo solo da pensare all’epitaffio sulla mia lapide. Presi carta e penna e provai a comporlo nel lounge.

Un cantastorie
Ci credereste che ero puro?
Divenni ingegnere per contentare mio padre.
Divenni capo di alcuni e lacché di altri.
Ma non contento,
volevo diventare capo di qualcuno di più
e lacché di qualcuno di meno.
Lavorando, negandomi una famiglia,
partendo per terre lontane, continuai la mia corsa.
Mi fermai, morso da un cane.
Ci credereste che alla fine ero puro?
Ero più puro dei selvaggi di Oukbar e dei fantocci di New York,
più puro dei dottori di Parigi e dei macellai delle Murge.
Ero trasparente come il vetro che sfregavo con carta di giornale ed alcool, da ragazzo, garzone di bottega.
Non c’era più nulla di me, svuotato da un mastino.
Ci credereste che ero felice?
Ero felice della felicità di chi non pensa più a sé,
a cui non serve più niente,
la felicità dell’ottico che inventa i mondi
sui quali guardare.


Il testo uscì fuori lentamente dapprima, ma senza intoppi, e mi venne da piangere, quietamente, appena lo terminai. Un pianto di gratitudine. Era iniziato l’imbarco, senza farmi vedere mi asciugai le lacrime ed andai. Di solito ero tra i primi, felice di passare avanti, forte della mia carta alitalia Freccia Alata e del mio status di frequent traveler. Questa, invece, volta aspettai in fila ed entrai quasi per ultimo. Non c’era più fretta, non c’era più orgoglio. Entrai in aereo, e mi accolse una canzone italiana di tanti anni fa, di Gerardina Trovato.  Avevo amato quella canzone, mi era sempre sembrata un idealizzazione della mia vita, come mi piaceva immaginarla. In realtà, mi rendevo adesso conto, non avevo mai avuto i timori e le difficoltà nel lasciare la mia città da ragazzo di cui cantava l’autrice. 
Nelle prime file di posti, in aereo, vidi un volto conosciuto, era stato il sindaco di una importante città. Non se ne sentiva più parlare molto. Viaggiava con la moglie, e si guardavano spesso, sorridendo. Mi sembrò naturale pensare un epitaffio anche per lui e, dopo essermi sistemato al mio posto, continuai a scrivere.

Un sindaco
Fui parolaio e feci promesse,
alcune le mantenni, altre di meno;
molte furono avventate, per sviare la gente di poca memoria;
altre furono studiate, gettate lì per un pacco di voti;
alcune furono sincere, nel momento in cui furono fatte,
e dimenticate in poche settimane.
La più importante fu avventata, studiata e sincera
e convinse mia moglie,
l’unica che mi fu sempre vicina
dopo ogni vittoria ed ogni sconfitta,
le prime sempre meno frequenti
le seconde sempre più definitive.
Fu forse l’unica promessa che mantenni
e ne fui sempre felice
.

Non ero convinto di quello che avevo scritto. Forse sarebbe stato meglio insistere di più sul senso comune del politico disonesto con parole ed azioni disallineate. Io ero uno di quelli che non aspettava altro che l’inizio di un argomento sulla politica per sputare veleno su tutti gli onorevoli, senatori e similari d’Italia. Questa mia inclinazione era naturalmente aumentata con il peggiorare del mio male. Ma ormai era tutto svanito. Mi piacque quel continuo guardarsi con viso sereno tra il Sindaco e la moglie, li immaginai felici e non modificai il testo.

Mi sistemai meglio nel posto a me assegnato, e feci partire il sistema di intrattenimento. Istintivamente, cercai playlist di musica ricercata: classica o almeno jazz, temendo che il vicino potesse giudicare i miei gusti musicali. Quando me ne resi conto, sorrisi. Cosa importava ormai? In realtà cosa ha mai importato il giudizio dei miei vicini? Scelsi invece l’opzione di riprodurre brani musicali casuali. Il primo brano era una delicatissima e triste ballad di Malika Ayane. Ascoltandola mi sembrava di sentire sulla pelle la foschia, negli occhi il bruno rossiccio delle foglie, nel naso il profumo della terra umida, delle giornate d’autunno.

Per non fare pesare il lungo viaggio, avrebbero servito la cena. Gli assistenti di volo iniziarono i preparativi. Una gentilissima hostess si occupò di me, chiedendomi cosa avrei preferito tra le scelte disponibili. Aveva dei modi gentilissimi, ed un sorriso bellissimo, ma degli occhi inequivocabilmente tristi. Non la tristezza di chi aspetta la gioia, ma una tristezza senza appello e senza speranza.

Una hostess
In me c’erano due mondi, scollegati tra loro.
Ero abituata a partire col gelo ed arrivare in estate,
tra Stoccolma e Rio, tra Londra ed Harare,
ma tra i due aeroporti c’era un legame
il legame ero io, e l’aereo che portava la gente
molti felici di andare in vacanza,
di ritrovare amici, parenti, amore.
Alcuni tristi, che lasciavano famiglie, forse rancore.
Ero abituata a partire dalla ricchezza ed arrivare alla povertà,
da Parigi a Luanda, da Bruxelles a Kinshasa.
Ma ogni viaggio portava un po’ di ricchezza,
anche se non sempre comprensione.
Il mondo dentro di me era ormai
gelo e povertà.
Nessun aereo poteva portarmi la primavera,
nessuna hostess portarmi ricchezza.
Per molti non era neanche una malattia,
la morte dentro.
Sorridi, dicevano, ma io sorridevo,
era questo il mio lavoro.
Intanto dentro ero morta
come foglie d’autunno.


Seguii la hostess con lo sguardo tutte le volte cha passava. Le augurai, con tutto il mio cuore, felicità. Dopo vari brani cui non feci attenzione, la playlist mi propose Venditti. Quante volte dovevo aver cantato quella canzone. Prima degli esami di maturità, prima di ogni maledetto e sudato esame all’università. Ad ogni falò di quand’ero giovane. Un rito di passaggio, che, a passaggio avvenuto scomparse senza lasciare traccia. Credo di non averla più sentita, o più probabilmente di non averla più ascoltata, da allora. Lo so, probabilmente è banale dirlo, ma mi tornarono in mente gli amici, gli odori e il tempo che non passa mai, di quei giorni.

Davanti a me c’era un passeggero molto alto, con un aria da personaggio dei film di Verdone. Quello che una volta era il marito precisissimo che pianificava tutto al millimetro, un altra il medico novello sposo che andava in viaggio di nozze ed un'altra ancora il professore universitario vedovo che opprimeva il figlio. Ecco, lo immaginai professore universitario. Ero certo di non sbagliarmi di molto. Il colore dei capelli, il taglio della barba, gli occhiali spessi con montatura senza tempo in tartaruga: tutto di lui sembrava confermarlo. Mi sporsi in avanti, con curiosità. Leggeva un libro in inglese che mi pareva trattare ipotesi di modulazioni alternative per ottimizzare la codifica di dati su bande estreme dello spettro elettromagnetico, che sapevo non correntemente utilizzate a scopo di trasmissione dati. L’ingegnere in me subito pensò che probabilmente si trattava di applicazioni molto specifiche difficilmente generalizzabili, ma il treno di pensieri si arrestò subito, come il mio interesse professionale, ormai pari a zero. La lettura dello spilungone mi sorprese, lo avevo immaginato più umanista che ingegnere. Sempre professore restava, nella mia immaginazione, molto simile a quell’esemplare odioso che mi fece quasi rinunciare agli studi.

Un professore
Più che i fulmini del cielo e la violenza delle tempeste,
siano la pazienza delle gocce di pioggia ed il soffio del vento,
a scolorire la mia lapide e cancellarmi la storia.
Che gli elementi marchino punti contro di me,
che non posso più rispondere.
In vita ero Professore,
depositario di conoscenza,
giudice in terra dei colti
e incurante nemesi per gli stolti.
Pensavo di essere imparziale,
troppo alto di statura fisica e morale
per soffrire di debolezze umane,
ed ero invece cieco, abbagliato
dalla mia grande conoscenza dell’etere
e poca saggezza di cose umane.
Come disse uno studente,
troppe volte bocciato, cui rovinai la vita:
il mio cuore era troppo distante
dal mio cervello e dalla mia mente.
Premiavo simili a me, pronti a compiacermi,
con voti generosi e lodi accademiche
e bocciavo studenti per un movimento,
uno sguardo, un sussurro
visto o solo immaginato.
Vento e pioggia, pulite la mia lapide,
ché coloro cui rovinai la giovinezza
non possano sputare sulla mia tomba.


Iniziò un brano familiare, che certamente conoscevo. Che avevo ascoltato moltissimi anni fa, ma di cui avevo dimenticato il titolo e l’autore. Era certamente un brano che avevo ascoltato spesso in gioventù. Appena Claudio Baglioni iniziò a cantare mi tornò tutto in mente. Mi ricordai di quando io e Stefania la ascoltavamo – forse trenta, trentacinque anni fa? - ancora fidanzati. Allora eravamo il ragazzo e la ragazza, che immaginavano di diventare l’uomo e la donna, ancora innamorati. Ascoltando questa canzone, immaginavamo i nostri figli che ancora non erano, e ancora oltre i nostri nipoti. Ci immaginavamo insieme per sempre, ed insieme ad una gioiosa tribù di figli e nipoti. Passavamo le ore a guardarci e a parlare. Il ricordo era doloroso. Faticai per trattenere un singhiozzare incontrollato. Mi girai dall’altra parte per non far vedere le lacrime a chi passava nel corridoio. Ero solo, a combattere con il mastino. Solo nella sconfitta, ormai una questione di poco tempo.

Una ragazza (*)
La ragazza ha un sorriso profumato
e un cuore di limone e fragola.
Si volta con aria distratta
e si aggiusta con cura i capelli ed i pensieri.
Sembra scendere dal cielo
e sulle guance accese le si leggono domande.
La ragazza nell'acqua calma dei suoi occhi scuri
di un lago in autunno e tra i suoi stretti polsi
trema già un destino sconosciuto.
Ha sguardi lunghi che immaginano il futuro
e due ali piccole che imparano a volare...
La ragazza si volta e il vestito leggero
si appoggia sulle gambe e il seno.
Per la ragazza il film si ferma di colpo ,
sotto una macchina guidata da un mostro
non cattivo, distratto.
Il ragazzo ha pianto tutte le sue lacrime,
e ha stordito tutti i suoi sensi.
Per il ragazzo il film si ferma un po’ dopo,
tra i denti di un mostro non cattivo, incurante.


Alla fine fu il cuore, meglio così. Mi trovò la hostess triste, che non riuscendo a svegliarmi, cacciò un piccolo urlo.

(*) versi liberamente ispirati al testo di un brano di Claudio Baglioni