martedì 5 dicembre 2017

A forza di essere vento

Come fanno a vivere in questo modo gli zingari, in questo campo che puzza di urina. Guarda quel piccino, avrà cinque, sei anni. Quant’è sporco. Non si lavano mai? Sicuramente tra poco verrà mandato a fare la carità. I genitori impostano i figli da piccoli, a realizzarsi in una vita da parassita. Il passo accelera, la testa si gira dall’altra parte. Finalmente arrivo alla fermata dell’autobus, spero che arrivi presto che qui non mi sento molto sicuro.

Perché mi guarda con questo sguardo cattivo? Sono un bimbo, si dovrebbe sorridere ai bambini, così dice la mamma. Ma i gagé sono diversi da noi, mi hanno detto. La mamma mi dice sempre di non fidarmi di loro. Il padre del nonno è stato ucciso da loro tanti anni fa, durante la guerra. In quella guerra, il porajmos lo chiama mia madre, hanno ucciso milioni di noi. Milioni sono tanti, tantissimi, mi hanno spiegato. Ma i gagé non se ne ricordano. Come ci si può dimenticare di aver ucciso milioni di uomini e donne? Sono un bimbo, non capisco queste cose ancora. Ma quando sarò grande e capirò meglio glielo spiegherò bene, non si possono dimenticare queste cose. Gli spiegherò anche che non va bene comportarsi così, bisogna sorridere a tutti i bambini.

Mi giro nuovamente a guardare verso il campo, per assicurarmi che non vangano a darmi fastidio. Ecco, il bimbo si incontra con altri due bimbi. Ridono e scherzano, come tutti i bambini. La mamma del bimbo esce dalla roulotte, lo accarezza e lo saluta con un sorriso ed un abbraccio. L’affetto delle mamme è universale, almeno questo. Vanno a chiedere l’elemosina in città, probabilmente. Ma non dovrebbe esserci l’obbligo di andare a scuola? La polizia, gli assistenti sociali non dovrebbero vigilare ed obbligare questa gente a far studiare i propri figli? Beata innocenza, adesso non capiscono cosa perdono, non capiscono a cosa sono condannati.

Anche oggi si va in città a caritare. Non mi piace molto, ma anche noi bimbi dobbiamo aiutare mamma e papà. Non mi piace, perché in città ci guardano male. Non capiscono che bisogna sorridere ai bambini. Alcune mamme ci sorridono, però non sono molte. Molti bambini, specialmente quelli più piccoli ci sorridono, spesso le loro mamme li tirano via. Non lo so, mi sembra che noi bambini siamo simili, forse diventiamo diversi quando cresciamo. Non capisco queste cose, sono solo un bambino. Non mi sembra giusto tirare via un bambino che sorride e vuole giocare con un altro bambino. Quando sarò grande glielo spiegherò che non va bene comportarsi così.

L’autobus ancora non arriva. Per fortuna arriva altra gente, neanche loro molto raccomandabili però, a ben guardare. Un gruppo di ragazzi, forse tifosi di una squadra di calcio, con delle birre in mano. Urlano male parole contro la mamma del bimbo, che stava lavando qualcosa in un catino. La signora capisce che non è aria e rientra nella roulotte senza guardarli. Speriamo che non vada a finire male. Uno inizia a tirare un sasso sul tetto della roulotte. Il gruppo fa quello che i gruppi di ragazzi di poca intelligenza ed educazione fanno, si sfidano a chi è il più coraggioso (o forse il più tonto). Il secondo prende un sasso più grande lo lancia. Il terzo rompe una delle finestre della roulotte. Ridono. Quattro ragazzi ancora non hanno lanciato nulla. Forse dovrei chiamare la polizia.

Mentre andiamo in città, facciamo a gara a chi è più veloce. Io non sono molto veloce, e preferisco cambiare gioco. Inizio a calciare un barattolo. Sfido gli altri a chi riesce a mandarlo più lontano, mentre corriamo. Iniziano ad esserci più macchine, cambiamo gioco. Adesso giochiamo agli indovinelli. Sono bravo a questo gioco. Finalmente arriviamo in piazza. Ognuno di noi si sceglie un semaforo per chiedere la carità. Mi avvicino al mio semaforo. Scatta il rosso. Faccio la faccia triste e mi avvicino alle macchine chiedendo la carità e recitando le benedizioni che mi ha insegnato la mamma. Secondo me è vero, il buon Dio aiuta la gente generosa. Alcuni mi danno delle monete, molti altri no. Non sono sicuro che tutti quelli che mi danno dei soldi siano generosi però: mi sembra che spesso me li diano solo per farmi andare via. Come se io gli dessi fastidio. Non mi piace dare fastidio. Come posso caritare senza dare fastidio? La mamma dice di non preoccuparmi, ma non mi piace, non mi piace quando mi danno i soldi per mandarmi via. Chissà dove li prendono i soldi i gagé. Sono solo un bimbo, ma quando sarò grande vorrei capire meglio tutte queste cose. Sicuramente avrò tanti soldi, e li darò a tutti i bimbi che me li chiederanno.

Gli ultimi quattro esitano. Uno lancia la bottiglia di birra vuota contro la roulotte. Un altro lo imita ed urla male parole contro gli zingari. Gli ultimi due confabulano. Si allontanano dietro un muro. Finalmente. Saranno pure dei ladri, e degli sporcaccioni, ma non è giusto tirargli delle pietre. Chissà qual’è la cosa giusta. Chissà se mandandoli a scuola da piccoli non si riesca a renderli più civili e ad adeguarsi alla nostra cultura. Non c’è più spazio per queste enclavi di arretratezza, inciviltà nel nostro paese: è anacronistico. Non è giusto non dare a questi bambini una istruzione ed un modo di guadagnarsi il pane onestamente. Però, anche loro dovrebbero capire che non possono andare avanti così. Dovrebbero fare di tutto per mandare i loro figli a scuola ed inserirli nella società civile.

Vedo che all’angolo della piazza arrivano i vigili. Rapidamente raccolgo le mie cose e faccio segno ai miei compagni. Abbiamo già raccolto qualche soldo. Magari torniamo più tardi. Passiamo davanti ad una scuola, mentre escono i bambini. Per qualche minuto veniamo investiti da una folla di bimbi come noi. Sorridono tutti. Sorridiamo anche noi. Ci lasciamo trasportare dalla folla e corriamo con loro. Per un attimo siamo uguali. Le mamme corrono verso di loro e li tirano lontano da noi. Ci riconoscono sempre. Credo che sia perché loro hanno sempre abiti nuovi e noi no. Che senso ha cambiare abito più volte al giorno? Che spreco. Che senso ha farsi la doccia tutti i giorni? La mamma dice che è una loro fissazione, e che tra l’altro, fa male alla pelle. Dovremmo spiegarglielo. Adesso sono piccolo, ma non appena avrò l’età giusto glielo farò capire senz’altro. Corriamo verso casa.

L’autobus ancora non arriva. Sento delle voci, mi giro. I ragazzi sono tornati, questa volta con il cappuccio della felpa tirato sulla testa. I due che mancavano all’appello hanno due bottiglie con uno straccio che ne esce dal collo. Accendono la prima bottiglia con un accendino e la lanciano contro la porta della roulotte. La seconda viene lanciata contro il fianco. Gli idioti scappano. Forse dentro la roulotte c’è la mamma del bimbo. Spero esca in fretta, non è il caso di andare sul telegiornale della sera per questa bravata. Non esce, forse non si è accorta del fuoco. Siamo in cinque alla fermata, guardiamo tutti la scena ma nessuno dice nulla. “C’era una signora dentro. Forse è meglio chiamare la polizia” suggerisco. Annuiscono tutti. Chiamo la polizia e descrivo i fatti. Mi dicono che stanno per arrivare.

C’è del fumo che viene dal campo. Mi sembra diverso dal solito, da quando cucina. Forse la mamma doveva bruciare delle cose che non le servivano. Non succede spesso. Di solito riesce sempre a riutilizzare tutte le cose. Ogni pezzo di legno viene usato prima come bastone, poi come puntello, infine come legna da ardere. Ogni pentola viene usata per cucinare, poi come contenitore, ed infine, riempita di terra, come vaso. Mentre mi avvicino vedo che è la nostra roulotte che sta bruciando. Corro verso il campo, fino quasi alla roulotte che brucia. Chiamo la mamma urlando. Ho paura.

Il bimbo torna, e chiama la mamma. Ha la voce impaurita. Inizio a sentire urla dalla roulotte. La porta si apre, ma ormai le fiamme hanno invaso tutta la traballante tettoia e la pedana di fronte alla porta, rendendo l’uscita impossibile. Anche dal lato, dall’unica finestra non è più possibile uscire a causa delle fiamme, alimentate dal mucchio di legna riposto sotto la roulotte. Guardo gli altri quattro signori che aspettano l’autobus. “Povera creatura” dice quello più anziano. Improvvisamente mi rendo conto di quello che sta succedendo. Il bimbo sta vedendo la mamma morire nel rogo, e noi stiamo qui a guardare. Corro verso di lui. Provo a cercare dell’acqua o qualsiasi altra cosa possa spegnere il fuoco. Trovo il catino che la signora stava usando per lavare, ancora con l’acqua dentro. Lancio l’acqua contro la porta della roulotte, per qualche secondo il rogo sembra diminuire. Se fossi venuto subito sono sicuro che sarei riuscito a spegnerlo. Urlo alla signora di uscire. Lei continua a gridare, non la capisco. Le fiamme si fanno sempre più alte. Il bimbo piange del pianto di un bimbo di cinque o sei anni che vede morire la madre di fronte a sè. Gli do la mano, lui affonda il suo viso nella mia gamba. Mi abbasso per abbracciarlo, esito un attimo perché puzza di sudore, e mi maledico per l’esitazione. Lo abbraccio con rabbia e piango anche io.