mercoledì 18 aprile 2018

Earthrise


Ero di ritorno da Bologna, dove ero stato ad un concerto di Roger Waters[1]. Avevo convinto il caporedattore della testata del quotidiano locale dove lavoravo a farmi partecipare, naturalmente a spese dell’editore, per poter fare un articolo sull’evento. Avevo faticato molto a convincerlo, inventandomi una presunta malattia dell’ex bassista dei Pink Floyd, sconosciuta al grande pubblico, che lo avrebbe forse allontanato dalle scene. Questo concerto sarebbe quindi forse stato l’ultimo, ed il nostro giornale uno dei pochi ed essere presente. In realtà non era vero, avevo inventato questa bufala perché ero un fan sfegatato dei Pink Floyd, volevo esserci, e potevo sempre dire che ero stato io stesso vittima della bufala.

Negli ultimi anni andava sempre peggio, e mi mandavano sempre di meno ad eventi del genere. La crisi della carta stampata, dicevano. Ormai la crisi si era istituzionalizzata, era diventata modo di vivere. La maggioranza delle nuove e speranzose leve non conoscevano altro metodo che il tirare a campare di ormai praticamente tutti i quotidiani locali. Questa volta ce l’avevo fatta. Avevo dovuto promettere di ascoltare i nuovi album degli artisti locali per poi poterne scrivere, cosa che odiavo, per la cronica pochezza del panorama musicale nostrano.

Il concerto era stato memorabile, come da prassi Pinkfloydiana. Effetti sonori e visivi memorabili. Una riproposizione filologicamente accurata dei pezzi storici della grande band inglese, conditi da qualche brano di Roger Waters, tollerato, anzi applaudito, dal pubblico che però li considerava visibilmente mero antipasto in attesa delle prime note dei grandi brani.

Il concerto inizia con Speak To Me, dall’album The Dark Side of The Moon. I Pink Floyd erano maestri dell’attesa, del preliminare che solletica l’appetito. Tappeti di archi sintetici che partono dal silenzio di migliaia di ascoltatori estatici di cui ne provano la pazienza, conditi da effetti sonori al confine tra udito e visione. Breathe - respira, che poi parte la cavalcata di basso di One of These Days, dall’album Meddle, una cavalcata che sembra durare per sempre. Uno di questi giorni ti prendo e ti faccio in mille pezzi[2]. Ci vuole tempo per prendermi. Tempo – Time, dall’album The Dark Side of the Moon, parte con il basso con le corde stoppate che scandisce i secondi a lungo, finché non ci troviamo vecchi, un giorno più vicini alla morte[3]. Ma non abbiamo paura della morte, prima o poi succederà[4]. Se deve succedere, che succeda mentre ascoltiamo The Great Gig in the Sky, dell’album The Dark Side of the Moon. Roger Waters ci ha fatto una sorpresa, non una voce angelica, ma due angeliche e bionde coriste riprendono il meraviglioso e sofferente gorgheggio della cantante della canzone originale e ne raddoppiano lo spessore con un controcanto dalle trame strazianti e pacificatrici.

Sarebbe potuta finire qui, su questa vetta. Me ne sarei andato con un sorriso ebete e sensi appagati.

A seguire, un pugno nello stomaco. Welcome To The Machine, dall’album Wish You Were Here, ci porta giù nel profondo, dal paradiso delle voci sottili e del pianoforte, un gran coda bianco certamente, all’inferno dell’alienazione di una periferia imbruttita di industrie pesanti, e di sogni infranti. Benvenuti nel macchinario.

Roger Waters ci ha poi proposto alcuni dei suoi pezzi, belli, significativi, ma non ancora marchiati a fuoco nel cuore collettivo di noi piccoli ingranaggi del macchinario. Perdonaci, siamo lenti. Cantiamo i tuoi inni con quarant’anni di ritardo medio. Sarà che noi, ingranaggi del macchinario italiano siamo, e meritiamo di essere, pendolari dal ritardo cronico. Non è solo colpa nostra. Sono i treni. E’ il Governo. Con Mussolini arrivavano in orario, però. Roger, non ti possiamo capire, non mastichiamo bene l’inglese, purtroppo.

A seguire, un occasione perduta. Wish you Were Here, dall’album omonimo. La riproduzione del brano si discosta in due-tre punti dalla versione canonica, ortodossa, incisa da lunghe sessioni di ascolto nella nostra corteccia uditiva. É la voce di Waters che cambia la chiusura della melodia in alcuni punti essenziali. E’ una sua scelta personale. Il suo modo di dirci che può ancora scegliere.

Forse è giusto così. La canzone, come tutto l’album da cui è tratta, è una celebrazione dell’assenza. L’assenza di Syd Barrett, storico chitarrista dei Pink Floyd, incapacitato dagli eccessi. L’assenza del padre di Roger, perso durante la Seconda Guerra Mondiale, dopo lo sbarco di Anzio. Crediamo di poter scegliere, tra il paradiso e l’inferno, tra il cielo ed il dolore. Poi finiamo a rinchiuderci nella nostra palla di vetro, come pesci rossi, anno dopo anno[5].

Poi l’apoteosi. Il carnevale. Another Brick in The Wall. Noi, che nel celebrare lo slogan anti-omologazione gridiamo di non volere allineare i nostri pensieri, lo facciamo in diecimila, con la stessa intonazione e portando lo stesso tempo. Roger, vergognati. Avrai mica fatto la fine dei maiali di Orwell? Invece di regalarci la libertà ci hai vestito a festa la prigione, ci hai abbellito il macchinario. Chissà se ci pensi ancora, o se per te è un lavoro come un altro. Io scribacchino di un giornale locale, tu perno di uno spettacolo ben oliato che genera danaro e regala illusioni di giovinezza e libertà. In ultima analisi, entrambi ingranaggi del macchinario.

A seguire due brani dell’album Animals, Dogs e Pigs, conditi da immagini violente di poveri che piangono e potenti che se la ridono. Per fortuna il mio inglese non mi fa capire quel testo demenziale con tribune elettorali.

Inizia un suono di monete e vecchi registratori di cassa a ricordarci qual’è il motore del macchinario guidato dai potenti di prima. Finalmente parte l’inusuale ritmo in sette quarti di Money, iconico incipit musicale dall’album Dark Side of The Moon, per la gioia del pubblico. Altre immagini distopiche a raccontarci la sofferenza dei troppi poveri, e la presunta serenità e perfino allegria dei pochi ricchi e potenti, tra cui diversi potenti italiani. Forse una narrativa, se pur duramente reale, inutile. Ti piace vincere facile? Chi oserebbe non essere d’accordo con te? Che ne facciamo di tutto ciò? Tu potresti fare di più, hai una grande responsabilità. Hai un esercito, solo stasera, di diecimila persone che marciano al tuo ritmo, come i martelli che fanno il passo dell’oca nel video di The Wall. Ripensandoci, magari lo fai, magari oltre ad aizzarci senza offrire soluzioni, fai qualcosa per questi poveri. Cosa fai? Possiamo aiutarti?

Inizia il brano che dà il titolo al tour, Us and Them, ancora dall’album The Dark Side of the Moon. Intelleggo solo una frase della canzone, and who knows which is which and who is who. Da che parte stiamo, o meglio, quali sono le parti? Destra e Sinistra? Sopra e sotto? Comunismo e Fascismo? Socialismo e capitalismo? Cristiani e Musulmani? Di quale tribù faccio parte? É la domanda che è sbagliata, non fatemela più.

Rifletto su questo, che è sempre una buona cosa, mentre altri brani via via si alternano, uno dei brani di Roger Waters solista, e poi via via Brain Damage ed Eclipse, entrambi dall’album Dark Side of the Moon e Mother dall’album The Wall.

L’inizio dell’ultimo brano mi riportano al concerto. Comfortably Numb, anche questo dall’album The Wall. Due meravigliosi assoli di chitarra che ti riportano in pace con il mondo. É la fine della messa, andate in pace. Roger, tu ed i tuoi vecchi compagni avete fatto della musica stupenda.

Comfortably Numb, confortevolmente insensibile. Questo siamo diventati. Le immagini di poveri che rimestano le discariche sono parte di uno show ben congegnato, bellissimo, struggente, ma in ultima analisi un macchinario. Welcome to the Machine.

Mentre scrivevo queste note, ripensando al concerto, immaginavo di scrivere i miei pensieri così come si erano generati, nell’articolo. Mi sembravano vivi, andavano al cuore di ciò che sentivo, di ciò che volevo comunicare. Dovevo tornare al mio macchinario. Potevo offrire riflessioni così fuori dal coro in un quotidiano di provincia, peraltro politicamente ben schierato? Tornai indietro e corressi con decisione. Destra e sinistra sono necessari, non sono mica tribù. Limai i commenti che non si allineavano alla visione politica dei lettori e decisi di mantenere un tono di maggiore ammirazione dell’artista per tenermi buoni tutti i suoi ammiratori, evitando (quasi) qualsiasi riflessione critica, se non un accenno, per darmi un tono intellettuale. Avrei preferito tenere l’originale, ma come tutti gli italiani, sono padre di famiglia anch’io.

Avevo ancora un paio d’ore prima del volo di ritorno, ed a malincuore mi decisi ad ascoltare i tre album degli artisti locali, su cui avrei dovuto scrivere recensioni. Iniziai dagli artisti che conoscevo, e sui quali avrei dovuto scrivere bene. Li ascoltai velocemente, giusto per confermare che non c’erano sorprese, ed avrei copiato ed incollato l’articolo dell’anno prima, con minime modifiche, per non scoprire il gioco. Il primo era un cantante melodico, tre accordi e via. Sempre innamorato, beato lui, e dalla rima facile. Il secondo non era male, mi era simpatico. Era un rock sincero, magari non memorabile, ma orecchiabile. Cantava in inglese, e la pronuncia era scorretta. Avrebbe, forse, funzionato in provincia, ma sarebbe stato ridicolizzato altrove.

Il terzo artista non lo conoscevo. Usava lo pseudonimo di Jim Grimble. Cissà perché, immaginavo che avesse un nome inutilizzable da artista, tipico delle parti nostre, tipo Oronzo Guadalupi o Vito Melpignano.

L’album si chiama Earthrise. La foto di copertina rappresenta la fotografia della NASA chiamata appunto “Earthrise”, in italiano “Il Sorgere della Terra”.

Earthrise è il titolo della famosissima foto che rappresenta la Terra, parzialmente in ombra, con in primo piano la superficie lunare, non appena ritorna visibile all’Apollo 8 che orbita la luna, come appunto il sorgere del sole. La foto è una foto pesante. È ritenuta una delle fotografie più influenti mai scattate, tanto da essere inclusa nella lista delle "100 fotografie che hanno cambiato il mondo".

Anche il primo brano si chiama Earthrise. Lo ascolto. È un brano strumentale, ricorda molto un brano degli E.S.T. (Esbjörn Svensson Trio), un trio jazz svedese che ho molto amato. Purtroppo il leader del trio morì durante un immersione a mare, a pensarci bene una morte simile a quella di Jeff Buckley.

Cerco di ricordarmi il brano in questione. Si tratta di “From Gagarin's Point of View”. Curiosa citazione, entrambi i titoli sono dal punto di vista di persone nello spazio, rispettivamente Yuri Gagarin e l’equipaggio dell’Apollo 8. Ascolto il brano degli E.S.T. In effetti hanno un atmosfera ed un architettura molto simile. Provo a riascoltarli entrambi, non è che il nostro amico Jim ha copiato, sperando nel fatto che gli E.S.T. non siano conosciutissimi da noi? In effetti le melodie sono diverse, così come la linea di basso: tecnicamente diversa, ma funzionalmente simile. Indubbiamente una citazione, ma non una copia, almeno non mi sembra. Jim inizia ad intrigarmi, ha frequentazioni musicali interessanti ed ispirazioni non ovvie. Certo, il pezzo è strumentale, non avrà mai successo.

Passo al pezzo successivo. Il titolo è SS16, Strada Statale 16? Probabilmente si, visto che parte da Otranto, passa per tutta la nostra provincia e finisce a Padova. Anche questo pezzo è strumentale. Anche questo mi sa vagamente di già sentito, dove? Provo a ripassare a mente i musicisti di jazz moderno leggero. Non mi viene in mente. Vado su Spotify, scorro artisti simili: Mammal Hands? Trio Elf? Tingvall Trio? Finalmente credo di trovarlo, si tratta di Hopopono dei GoGo Penguin. In questo caso non è una somiglianza così ovvia. Anche in questo caso è più il senso del brano simile, ma la melodia e gli accordi sono diversi. Jim mi intriga, non sarà il nuovo Miles Davis, ma quanto meno il suo album mi da la soddisfazione che deve avere il Commissario Montalbano quando trova il colpevole.

Il terzo brano è spiazzante, strano. Il titolo è No Way Out. Non viene alla mente nessun altro brano. Un leggerissimo accenno di già sentito a metà del pezzo, ma nel suo insieme mi suona nuovo e diverso da altre cose che ho sentito. Armonie atonali all’inizio ed alla fine. Accordi diminuiti e scale esatonali. Nel mezzo una parte tonale, anche se con cambi di accordi non banali, poi una parte in Re minore, per poi finire in esatonale. Il ritmo sembra essere un cinque quarti, in altre parole una condanna a morte per un pezzo musicale. L’unico pezzo di successo con una metrica dispari è Money dei Pink Floyd, poi si scende giù ai pezzi di jazz di Dave Brubeck (Take five il pezzo – splendido – più noto) o al prog rock più ostico degli anni 70. Insomma, un pezzo destinato al dimenticatoio: metrica dispari, armonie atonali e pezzo strumentale. Mi viene in mente la somiglianza che avevo trovato in un breve frammento nel mezzo, sembra, sia armonicamente che melodicamente, simile ad una Gnosienne di Satie. La cerco su Spotify e ne ho conferma, si tratta della Gnosienne n. 3. Il Commissario Montalbano de noantri ce l’ha fatta un’altra volta.



[1] Tour “Us+Them” 2018 di Roger Waters. Concerto del 25 Aprile 2018 all’Unipol Arena
[2] Dal testo di One of These Days
[3] Dal testo di Time
[4] Dal testo di Great Gig in the Sky
[5] Dal testo di Wish You Were Here

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